L’autostima e la speranza di Pasqua
L’autostima e la Pasqua. Una strana coppia il cui legame non è affatto scontato.
L’autostima è fondamentalmente una questione di autovalutazione. Anche la nostra risposta alla Pasqua è fondamentalmente una questione di autovalutazione. La Pasqua—la risurrezione del Salvatore dai morti—è fonte di speranza solo se uno vede se stesso con chiarezza.
Proviamo allora ad approfondire questo legame inaspettato:
L’autostima
Tipicamente, si menziona l’autostima per commentare la sua comune carenza. Non ne abbiamo mai abbastanza. Tuttavia, non penso che la valutazione quantitativa sia sufficiente. Se vogliamo capire come dobbiamo percepire il nostro vero valore, dobbiamo partire da due domande esistenziali: “Chi siamo?” e “Perché esistiamo?”
Solo il nostro Dio può dirci chi siamo. Dopo tutto, siamo stati fatti a immagine del nostro Creatore. Tutto il creato rispecchia indirettamente gli attributi di Dio, ma solo l’uomo porta la sua immagine, riflettendo direttamente la natura divina. L’uomo può amare ed esser amato, pensare e pianificare, creare e comunicare. Ogni essere umano ha un valore inestimabile e infinito proprio perché i suoi pensieri e le sue azioni riecheggiano la vita eterna di Dio. Infatti, sappiamo nel nostro intimo che esistiamo per conoscere e sperimentare qualcosa di più grande di noi stessi. Siamo stati creati da Dio con un valore infinito che si realizza solo vivendo per gioire nella gloria di Dio.
Tuttavia, tristemente, la realtà dell’immagine di Dio non spiega completamente la nostra identità ed esistenza. Non si può tralasciare il problema del peccato originale. Nasciamo separati dal nostro Creatore a causa del peccato del nostro primo padre. Essendo portatori dell’immagine di Dio, i piaceri di questo mondo non possono soddisfarci. Ci proviamo lo stesso. Siamo curvi su noi stessi in quanto viviamo egoisticamente per noi stessi. Però, anche quelle volte che otteniamo ciò che desideriamo il nostro cuore caduto non dice mai “basta.” Non possiamo ricolmare del tutto quel senso di vuoto. Per di più, la nostra coscienza ci accusa e sappiamo di essere colpevoli per i modi in cui trattiamo gli altri. Viviamo nel mondo che Dio ha creato, portiamo la sua immagine ma non lo ringraziamo e non lo glorifichiamo.
La Pasqua
Solo la Pasqua può ricalibrare la nostra autostima poiché solo la risurrezione di Gesù Cristo può ripristinare l’immagine di Dio in noi che è stata snaturata dal nostro peccato.
Tuttavia, non c’è risurrezione senza crocifissione. E non c’è crocifissione senza incarnazione.
La Parola è diventata carne. Dio è diventato uomo per salvare l’uomo. Gesù era il perfetto portatore dell’immagine di Dio poiché ama sempre Dio Padre con tutto il suo essere e ama il suo prossimo come se stesso. Entrò in un mondo ottenebrato dal peccato senza esserne contaminato. Tuttavia, si offrì al posto di peccatori per placare l’ira di Dio. Noi meritiamo di essere puniti dall’Onnipotente per aver trascurato e sottovalutato la sua santità. Tuttavia, Gesù Cristo—vero Dio e vero uomo—si sostituì ai peccatori, caricandosi con la condanna di tutti coloro che avrebbero mai creduto in Lui.
Non finse di morire. Gesù fu posto in una tomba e il suo corpo ci giacque da venerdì a domenica. Però, non rimase nel sepolcro. Fu risuscitato il terzo giorno. La sua risurrezione è l’alba di una nuova creazione; una nuova vita che vince la morte. La risurrezione è fonte di una speranza viva perché i nostri peccati possono essere perdonati e non dobbiamo mai più essere definiti da essi. Per di più, uniti a Cristo possiamo iniziare a vivere come veri portatori dell’immagine di Dio, attendendo il ritorno del nostro Salvatore.
A volte quando si parla di autostima, si parla pure di fiducia in se stessi. Però, confidare in noi stessi non può che portare alla confusione. Solo ponendo la nostra fiducia e speranza in colui che è morto e risorto possiamo vederci così come siamo: peccatori che hanno bisogno di salvezza per poter conoscere Il Dio di cui portiamo l’immagine. Dobbiamo conoscere la risurrezione di Cristo per vivere veramente:
2 Cor. 5:15 “egli morì per tutti, affinché quelli che vivono non vivano più per se stessi, ma per colui che è morto e risuscitato per loro.”
Accogliere Cristo nel tuo cuore
Matthew Johnston
Ogni vita si compone di una vasta gamma di relazioni: dai propri parenti agli sconosciuti che si incrociano tornando a casa. Si vivono questi rapporti secondo diversi livelli di intimità, la quale si concretizza spesso a casa. Più intimo è il rapporto, più si permette ad una persona di avere accesso alla propria casa. Ad alcuni non è permesso di varcare la soglia del portone, mentre con altri si parla davanti alla porta di casa. Il vicino viene accolto sulla soglia di casa, ma gli amici sono accolti a tavola. Quelli più intimi restano per la notte, oppure per un paio di notti. Benché, come recita il detto, a volte “l’ospite è come il pesce: dopo tre giorni puzza”, ci sono alcuni ospiti (spesso parenti) che rimangono ben oltre tre giorni: una settimana, un mese o più mesi! Ovviamente c’è una differenza abissale tra il modo in cui condividi la vita con chi rimane da te per una sola cena e il modo in cui la condividi con chi vive da te per tre mesi.
Dove collocheresti il tuo rapporto con Cristo nelle riflessioni precedenti? Assomiglia più al rapporto che hai con l’amico che cena da te un paio di volte all’anno oppure a un rapporto che esiste tra persone che condividono tutto nella vita? La richiesta di Paolo in Efesini 3:17, “e faccia sì che Cristo abiti per mezzo della fede nei vostri cuori,” ci invita a riflettere sulla dimora di Cristo nel cuore del credente. Se tu sei in Cristo, come accogli Cristo nel tuo cuore? Gesù si sente a casa nel tuo cuore? Si trova a suo agio?
Come si può accogliere colui che è già arrivato?
Prima di procedere con le nostre riflessioni, dobbiamo affrontare una domanda di natura teologica che viene subito a galla. Se Cristo è nel cuore di ogni credente per mezzo dello Spirito, come è possibile che Paolo preghi che Cristo dimori nel cuore di credenti? Perché chiedere che possano ottenere quello che già possiedono? La sua prima preghiera, quella nel primo capitolo della stessa lettera, ci offre un ausilio nel rispondere. In quella preghiera Paolo supplica Dio che gli dia lo Spirito (notate la “S” maiuscola) di sapienza e di rivelazione (1:17). Pregava palesamene per credenti (“la vostra fede,” 1:15) ossia coloro che avevano già lo Spirito (1:13-14). Quindi è evidente che pregava che potessero sperimentare nuovamente o vivere pienamente l’opera dello Spirito che agiva già nei loro cuori. In altre parole, pregava che potessero sperimentare un aspetto specifico del ministero dello Spirito. In un modo simile, Paolo prega che gli Efesini possano sperimentare o vivere pienamente l’opera di Cristo nei loro cuori. Si tratta dell’accrescimento della loro esperienza della sua presenza. Cristo dimora nel cuore di ogni credente, ma non ogni credente lo sperimenta nello stesso modo, perché non ogni cuore si adatta ugualmente a Cristo. Pur essendo ugualmente sposate, due coppie possono vivere il matrimonio in due modi contrastanti. Una coppia vive il matrimonio con gioia, condivisione e comunione; l’altra lo vive come se fossero soltanto coinquilini senza una vera unità amorevole.
Cristo è sempre con noi tutti giorni fino alla fine dell’età presente (Matt. 28:20), ma spesso viviamo come se fosse assente in diversi momenti della vita. Non siamo in grado di accogliere Cristo nel cuore senza l’intervento dello Spirito. Infatti, la traiettoria della preghiera di Paolo rivela il legame tra la potenza dello Spirito e la presenza di Cristo nel credente. Egli prega in primis che Dio dia loro “secondo le ricchezze della sua gloria, di essere potentemente fortificati, mediante lo Spirito suo, nell’uomo interiore” (3:16). Il risultato della fortificazione dello Spirito è una più completa esperienza dell’inabitazione di Cristo. Lo Spirito Santo deve rendere il nostro cuore una dimora degna di ospitare Cristo.
Pensa a tutto quello che si fa per preparare la casa prima che arrivino gli ospiti: fare la spesa, pulire ogni centimetro della casa, ricercare ricette, preparare i cibi, apparecchiare la tavola, ecc. Però, quanto fai per accogliere Cristo nel tuo cuore? La preghiera di Paolo in Efesini 3:17 mette in risalto tre elementi: l’ospite, la chiave e la casa. Studiando questi tre elementi, possiamo assicurarci di accogliere Cristo nel nostro cuore in modo che possiamo conoscere la gioia della comunione rivitalizzante con lui.
L’ospite
L’ospite è Gesù Cristo, il cui corpo porta i segni dei chiodi, le ferite provocate dall’ira di Dio contro i nostri peccati. Egli è il Giusto che intercede per noi incessantemente alla destra del Padre (1 Giovanni 2:1). Il leone di Giuda che ha vinto la morte e l’Agnello immolato per noi (Apoc. 5:5-6). Gesù ci salva, ci santifica di giorno in giorno e prende dimora nel nostro cuore. Risiede con noi per mezzo dello Spirito. Eravamo figli d’ira (2:3) ma siamo diventati figli di Dio in Cristo per mezzo dell’adozione amorevole del Padre (1:5) in modo che siamo membri della sua famiglia (2:19). È dunque, per certi versi, inadeguato chiamarlo semplicemente ospite poiché è il nostro fratello maggiore, “il primogenito tra molti fratelli” (Rom. 8:29). Infatti, la parola scelta da Paolo, “abitare” (κατοικῆσαι) sottolinea l’intimità relazionale e la profondità della nostra comunione con Cristo. Paolo la impiega due altre volte per riferirsi all’unione ipostatica (l’unione tra la natura umana e divina nella unica persona di Cristo): “Poiché al Padre piacque di far abitare in lui tutta la pienezza” (Col. 1:19); “perché in lui abita corporalmente tutta la pienezza della Deità” (Col. 2:9). Dunque, Non si tratta di una dimora provvisoria, ma stabile; non una visita passeggera, ma una permeanza radicata; un’influenza totale anziché parziale. L’esperienza di quest’abitazione di Cristo nel cuore va ben oltre la conoscenza di alcuni fatti su Cristo.
La dimora di quest’ospite si concretizza nel cuore del credente, quando ne è più consapevole. Però, si potrebbe obbiettare dicendo, “Dio è onnipresente, e allora è—almeno nel senso generale—presente con tutti.” Però, nello stesso modo in cui il Dio onnipresente manifestava la sua presenza in modo speciale nel tabernacolo e poi nel tempio nell’Antico Testamento (ad es. Esodo 40), Dio è presente in modo speciale nel cuore del credente. La sua presenza ha uno scopo specifico in quanto Cristo abita nel cuore del credente per aiutarlo ad appropriarsi delle benedizioni spirituali che gli appartengono in Lui (Efesini 1:3). Riflettendo sull’onnipresenza di Dio, il salmista poteva dire “Tu sai quando mi siedo e quando mi alzo…Tu mi circondi, mi stai di fronte e alle spalle e poni la tua mano su di me” (Salmi 139:2, 5). Il cristiano può dire a Cristo: “Tu abiti dentro di me quando mi siedo e quando mi alzo, tu sei dentro al mio cuore, abiti sempre nell’uomo interiore.” Cristo può simpatizzare con ogni nostra debolezza in quanto uomo, e può essere veramente presente con ognuno dei suoi seguaci in quanto Dio. Cristo abita nel cuore del credente, ossia il credente sperimenta la risposta a questa preghiera quando è conscio del fatto che il Dio-uomo vive dentro di lui per incoraggiare, consolare e edificare. Inoltre, questa consapevolezza si realizza nella comunicazione. Siccome è vero che “dall’abbondanza del cuore parla…la bocca” (Luca 6:45), quello che diciamo è il frutto della dimora traboccante di Cristo nel nostro cuore. Il credente parla di Cristo, ma parla pure con Cristo nel suo cuore e desidera sentire da Cristo nella sua Parola.
Gesù parlò dei due modi diversi in cui fu accolto alla casa di Simone il lebbroso: “E, voltatosi verso la donna, disse a Simone: «Vedi questa donna? Io sono entrato in casa tua e tu non mi hai dato dell’acqua per i piedi; ma lei mi ha bagnato i piedi di lacrime e li ha asciugati con i suoi capelli” (Luca 7:44). La tua accoglienza di Cristo—l’Ospite per eccellenza—s’assomiglia più a quella della donna o quella di Simone?
La chiave
La fede è la chiave tramite la quale ospitiamo Cristo nel nostro cuore perché il dimorare di Cristo in noi è una realtà che si sperimenta “per mezzo della fede” (Efesini 3:17). La fede è lo strumento per mezzo del quale si sperimentano le cose vere ma invisibili. Nello stesso modo in cui i nostri cinque sensi ci aiutano a sperimentare la realtà naturale, la fede ci permette di fare lo stesso con la realtà spirituale. L’odore che emana dalla ragazza che ha esagerato con il profumo esiste anche se tu non lo puoi sentire a causa del naso tappato. L’olfatto è il senso che ti permette di percepire stimoli odorosi. La fede ci permette di percepire stimoli spirituali.
Si trova una sottolineatura della connessione tra la fede e la dimora di Cristo in Galati 2:20, laddove Paolo esclama “Sono stato crocifisso con Cristo: non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me! La vita che vivo ora nella carne, la vivo nella fede nel Figlio di Dio, il quale mi ha amato e ha dato se stesso per me.” Cristo vive nel credente e il credente vive questa realtà per fede.
La fede può essere riassunta in tre elementi: notizia, assenso e fiducia. La fede include la notizia perché crediamo in qualcosa. La fede non è autoreferenziale (avere fede in fede è assurdo). Il Vangelo è la buona notizia. Credendo, il cristiano si riempie la mente con le verità sulla persona e l’opera di Cristo. La fede include l’assenso perché il cuore del credente asseconda le cose in cui credere; le considera come vere. Però, la fede non si ferma con l’intelletto (i demoni sono capaci di tanto, Giacomo 2:19) ma coinvolge la volontà perché comporta la fiducia. Il cristiano si rifugia in Cristo per fede. S’aggrappa a Cristo, credendo in lui. Dunque, si accoglie l’inabitazione di Cristo nel cuore per fede, laddove la mente riflette sulla bellezza delle diverse sfaccettature della dottrina (notizia) e gioisce in essa credendo che sia vera (assenso) per poi rifugiarsi in essa, usando la verità della sua presenza per consolarsi (fiducia).
Quando crediamo davvero che Cristo dimori in noi, il modo in cui viviamo subisce una trasformazione tangibile. Si gira la chiave della fede quando la gloriosa realtà della inabitazione di Cristo ha un impatto pratico sulla vita del credente. Il credente dovrebbe fuggire la fornicazione perché convinto per fede di non poter praticare l’immoralità sessuale senza coinvolgere colui che dimora nel suo cuore (vedi 1 Corinzi 6:15-21). Il credente, mediante il rinnovamento della propria mente, può combattere lo scoraggiamento suscitato dalla solitudine, realizzando per fede che Cristo è sempre vicino e, pertanto, il credente non è mai del tutto isolato.
La casa
La casa dove si accoglie Cristo è il cuore, “il centro di controllo” della nostra esistenza (Proverbi 4:23). Il cuore rappresenta chi siamo nel senso più importante. Tripp nota nel suo libro, Strumenti nelle mani del Redentore che “Il cuore è il nostro ‘vero’ io, è il nucleo centrale del nostro essere,” (p. 70). Poi prosegue spiegando, “Ad esempio, quando sosteniamo di conoscere bene qualcuno, non stiamo dicendo di conoscere profondamente le sue orecchie o il suo naso; stiamo parlando dell’uomo interiore, del cuore! Sappiamo quello che la persona pensa, cosa desidera, ciò che la renda felice o triste; siamo in grado di esprimere ciò che sente in un determinato momento” (p. 70). Dunque, se Cristo abita nel nostro cuore, Egli ha accesso ad ogni parte della nostra vita.
Dobbiamo accogliere Cristo in ogni stanza del nostro cuore, vogliamo che la sua presenza permei ogni suo vano. Cristo abita pienamente nel cuore del credente, cioè si sente di più a casa, quando ogni camera viene ristrutturata a suo piacimento. Il cuore è un altro modo per descrivere l’anima (la parte incorporea dell’uomo) e include la volontà (Proverbi 3:5: “Confida nel SIGNORE con tutto il cuore”), l’intelletto (Ebrei 4:12: “i pensieri e le intenzioni del cuore”) e l’affetto (Salmi 37:4: “i desideri del tuo cuore”). Cristo deve ristrutturare le nostre decisioni, i nostri pensieri e i nostri desideri.
Robert Munger nel suo libretto, Il mio cuore la casa di Cristo raffigura la vita cristiana come una casa, che Gesù attraversa passando di stanza in stanza. La biblioteca rappresenta la mente. La sala da pranzo l’appetito. Ci sono pure il soggiorno delle amicizie e il ripostiglio che contiene i peccati segreti. Il Signore deve ripulire tutto quanto prima di poter accomodarsi e sentirsi a suo agio. In Efesini 3:17, Paolo prega che Cristo possa essere presente per fare questo lavoro di pulizia e ristrutturazione.
D.A. Carson, commentando Efesini 3:17 nel suo libro “Un appello per una riforma spirituale,” adotta un approccio simile a Munger e fornisce un’illustrazione intrigante al riguardo:
“Immaginatevi una coppia che accumuli abbastanza denaro per acquistare una vecchia casa. Comprano la casa, ma sanno bene che avrà bisogno di parecchio lavoro di adattamento e di restauro. Non sopportano la tappezzeria di colore nero ed argento nella camera da letto principale. Ci sono mucchi di spazzatura in cantina. La cucina sembra essere fatta più per la gioia dell’idraulico che per la cuoca. Il tetto perde in un paio di punti, l’isolamento è scarso, come pure l’illuminazione nel bagno e la vecchia caldaia è ormai corrosa. Non solo, ma, crescendo la famiglia, questa coppia completa un paio di camere supplementari nel seminterrato ed aggiunge una piccola aula per ospitarvi uno studio ed uno spazio lavoro. Il terreno circostante viene accuratamente pulito e preparato per accogliervi un bel giardino…Un bel giorno, venticinque anni dopo l’acquisto, il marito condivide con la moglie quest’osservazione: ‘Sai, mi piace proprio stare qui. Questo posto si adatta bene alle nostre esigenze. Dovunque guardiamo, vediamo il risultato del nostro lavoro. Questa casa è stata adattata ai nostri bisogni e ai nostri gusti. Qui mi sento proprio a mio agio.’”
Poi Carson applica quest’illustrazione a noi in quanto credenti: “Quando Cristo fa di noi la Sua dimora, Egli vi trova solo l’equivalente di un mucchio di spazzatura, tappezzeria nera ed un tetto che perde, così Egli si dà da fare per trasformare questa casa in un luogo adatto a Lui, una casa dove possa stare veramente comodo. Bisogna fare molti lavori di pulizia e di restauro, diverse riparazioni e persino ampliamenti” (pp. 212-213).
Il nostro cuore è, sì, la casa di Cristo; ma è sempre, allo stesso tempo, un cantiere.
Una nuova prospettiva sull’amore di Cristo
Ogni ospite lascia il suo segno. Nessuno più di Cristo. La preghiera di Paolo persegue e dimostra che la presenza di Cristo (Efesini 3:17) sperimentata per mezzo della potenza dello Spirito (Efesini 3:17) ci permette di sviluppare una nuova prospettiva sull’amore di Cristo (Efesini 3:18-19). Ecco come Paolo descrive lo scopo della inabitazione di Cristo:
…perché, radicati e fondati nell’amore, 18 siate resi capaci di abbracciare con tutti i santi quale sia la larghezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità dell’amore di Cristo19 e di conoscere questo amore che sorpassa ogni conoscenza, affinché siate ricolmi di tutta la pienezza di Dio (Efesini 3:17-19).
Quale motivo migliore per accogliere Cristo nel tuo cuore?
La distinzione tra il Creatore e la creatura
Dio è indipendente e senza limiti, mentre noi siamo come tutto il resto del creato dipendenti da Dio e limitati in svariati modi nello spazio e nel tempo. Questa distinzione è una verità talmente inviolabile che la sua essenzialità si presuppone ovunque nella Bibbia.
Matthew Johnston
Ci sono in tutto il modo solo due cose. È vero che secondo gli scienziati ci sono più di 150 miliardi di galassie osservabili nell’universo, ciascuna contenente miliardi di stelle ma nonostante l’apparente infinita vastità dell’universo, tutte quante le cose sono effettivamente riducibili a due: Dio e tutto il resto. Si può parlare dunque di due generi di esistenze: il Creatore e la creazione. Dio è indipendente e senza limiti, mentre noi siamo come tutto il resto del creato dipendenti da Dio e limitati in svariati modi nello spazio e nel tempo. Questa distinzione è una verità talmente inviolabile che la sua essenzialità si presuppone ovunque nella Bibbia. Infatti, il primo versetto del primo libro biblico è comprensibile solo alla luce di questa differenziazione: “Nel principio Dio creò i cieli e la terra” (Genesi 1:1). Da sempre Dio è esistito ossia è senza un inizio, tutto il resto invece lo ha. Dunque, ontologicamente parlando (a livello dell’essere) c’è un abisso invalicabile che separa il Creatore da ogni creatura.
Le seguenti parole di Wayne Grudem ci risultano utili a cogliere la fissità di questa distinzione:
«La differenza fra l’essere di Dio e il nostro essere è più della differenza fra il sole e una candela, più della differenza fra la calotta glaciale artica e un fiocco di neve, più della differenza fra l’oceano e una goccia di pioggia, più della differenza fra l’universo e la camera dove siamo ora seduti: l’essere di Dio è qualitativamente diverso. Nella nostra idea di Dio non dovrebbe essere proiettata nessuna delle limitazioni o delle imperfezioni tipiche della creazione. Egli è il creatore; tutto il resto appartiene all’ordine delle cose create. Tutto il resto può svanire in un istante; egli non può che esistere per sempre» (Grudem, Teologia sistematica, p. 201).
La replica indubbia alla domanda: “Chi è simile al SIGNORE, al nostro Dio?” (Salmo 113:5; Isaia 44:7) è “nessuno!” Dov’eravamo noi quando Dio fondava la terra? (Giobbe 38:4). Se non esistevamo prima che il mondo ci fosse, allora c’è una differenza decisiva tra noi e Dio. Non c’è una molteplicità di dei, c’è appunto un solo Dio (Deut. 6:4) e si vede la sua unicità quando realizziamo quanto Dio è distinto dalla sua creazione.
Il pericolo di offuscare questa distinzione
Se il riconoscimento della distinzione tra il Creatore e la creatura è la pietra angolare della vera conoscenza di Dio ( la teologia), la stoltezza, d’altronde, consiste nell’offuscamento della stessa. Si sa che lo stolto dice in cuor suo “Non c’è Dio,” (Salmo 14:1) ma la sua ottusità si vede pure nella confusione tra il Creatore e la creazione. Ogni forma di idolatria è una manifestazione di questa confusione in quanto gli uomini sono idolatri quando adorano e servono “la creatura invece del Creatore” (Rom. 1:25). Però, sono già stati annaffiati i semi dell’idolatria quando interpretiamo l’agire di Dio come se facesse parte della creazione. È proprio questa tendenza che si vede nel Salmo 50:
Salmi 50:20-22 Ti siedi e parli contro tuo fratello, diffami il figlio di tua madre. Hai fatto queste cose, io ho taciuto, e tu hai pensato che io fossi come te; ma io ti riprenderò, e ti metterò tutto davanti agli occhi. Capite questo, voi che dimenticate Dio, perché io non vi laceri e nessuno vi liberi.
La distinzione tra il Creatore e la creatura s’offusca ogniqualvolta si riduce la separatezza tra noi e Dio il che succede quando ci comportiamo come se ci fosse una sola cosa nell’universo. Quest’errore si verifica in un duplice modo: umanizziamo Dio o deifichiamo noi stessi. Si pensa, nel primo caso, che Dio sia come noi e pertanto non degno di fiducia, perché incapace di aiutarci abbastanza, nel secondo caso, che noi siamo come Dio e dunque capaci di fare ciò che solo Dio può fare. Entrambi i casi producano un medesimo esito: confusione, frustrazione, delusione e dolore. Insomma, l’offuscamento di questa distinzione è, secondo Giacomo, un sintomo della saggezza terrena cioè quella che non tiene conto di Dio (non “scende dall’alto”) perché produce “disordine e ogni cattiva azione” (Giacomo 3:11-17).
La somma della nostra sapienza è ancorata in questa distinzione
Giovanni Calvino, accentua l’importanza di questo concetto nelle prime righe del suo capolavoro, Istituzione della religione cistina: “Quasi tutta la somma della nostra sapienza, quella che tutto considerato merita di essere reputata vera e completa sapienza, si compone di due elementi e consiste nel fatto che conoscendo Dio ciascuno di noi conosca anche sé stesso” (I.I.1, p. 137). La nostra visione del mondo si compone di questi due elementi principali: il nostro concetto di Dio e il nostro concetto di noi stessi. Non è molto diverso dal funzionamento di un’altalena a bilico, perché quello che si mette su un lato, influisce sull’altro lato. In altre parole, il nostro concetto di Dio ha un impatto sul nostro concetto di noi stessi e viceversa: se ci immaginiamo autosufficienti, Dio diventa piccolo e il suo aiuto superfluo; se ci dimentichiamo che Dio è l’unica vera sorgente di soddisfazione e significato, ci mettiamo a ricercare tale fonte nella creazione. Solo se ci avviciniamo a Dio consapevoli della sua maestà, saremo pure consci dei nostri limiti creaturali.
C’è un nesso reciproco tra la nostra pochezza e la grandezza di Dio. Conoscendo noi stessi conosciamo Dio.
« …Infatti dal sentimento della nostra ignoranza, vanità, distretta, infermità e ancor più, perversità e corruzione, siamo condotti a riconoscere che in Dio solamente c’è vera luce di saggezza, forza stabile, ricchezza di ogni bene, purezza di giustizia. Solo turbati dalle nostre miserie ci volgiamo a considerare i beni di Dio, e non possiamo volgerci seriamente se non dopo aver cominciato ad essere insoddisfatti di noi stessi…La conoscenza di noi stessi dunque non solo ci stimola a conoscere Dio, ma anzi deve guidarci, quasi per mano, a trovarlo» (I.I.1, pp. 137-138).
È anche vero l’inverso ossia conoscendo Dio, conosciamo noi stessi:
«Se infatti in pieno giorno guardiamo verso il basso o qua e là intorno a noi, ci sembra di avere lo sguardo più acuto che si possa immaginare; ma se leviamo in alto gli occhi per contemplare il sole, quella grande luce che si spandeva in terra è subito abbagliata e completamente confusa dallo splendore che la sopravanza, al punto che siamo costretti a confessare che la vivacità dimostrata nell’affrontare cose terrestri risulta greve e lenta quando si tratti di misurarsi col sole. Lo stesso accade nel campo dei beni spirituali: fintantoché non guardiamo oltre la terra, accontentandoci della nostra giustizia, saggezza e forza, siamo soddisfatti e ci compiacciamo fino a valutarci semidei. Me se incominciamo a levare i nostri pensieri a Dio e a riflettere su chi egli sia e quanto eccellente sia la perfezione della sua giustizia, saggezza e forza, a cui ci dobbiamo conformare, subito quanto ci soddisfaceva pienamente sotto il falso aspetto di giustizia avrà l’odore cattivo dell’iniquità; quello che ci deliziava sotto l’etichetta di saggezza apparirà non essere che follia, e quello che aveva una apparenza di forza si rivelerà debolezza» (I.I.2, p. 138).
La distinzione come fonte di gioia
La distinzione tra il Creatore e la creatura — il fatto che Dio non è come noi — dovrebbe riempierci il cuore di una gioia robusta e stabile. Dio è degno della nostra fiducia proprio perché non è come noi: “Se siamo infedeli, egli rimane fedele, perché non può rinnegare sé stesso” (2 Timoteo 2:13). Quali sono i modi in cui Dio è diverso da noi? Ecco tre delle risposte più ovvie:
Dio è indipendente, noi siamo dipendenti da lui. Dio è sempre beato (1 Timoteo 1:11) e la sua felicità non può essere interrotta in quanto non dipende da nessuno se non da sé stesso. Prima che ci fosse una creazione, Dio Padre, Dio Figlio e Dio Spirito Santo condividevano un amore completo e ininterrotto (Giovanni 17:24). Dio “non è servito dalle mani dell’uomo, come se avesse bisogno di qualcosa; lui, che dà a tutti la vita, il respiro e ogni cosa” (Atti 17:24-25). Noi siamo bisognosi ma Dio no. Ecco perché possiamo rivolgerci a lui per soddisfare ogni nostro vero bisogno.
Dio è immutabile, noi siamo mutabili. Noi cambiamo continuamente, a volte andiamo meglio, altre volte peggio. Quando dubitiamo, siamo “simile a un’onda del mare, agitata dal vento e spinta qua e là” (Giacomo 1:6). Dio non cambia (Malachia 3:1) perché in lui “non c'è variazione né ombra di mutamento” (Giacomo 1:17). “Dio non è un uomo, da dover mentire, né un figlio d'uomo, da doversi pentire. Quando ha detto una cosa non la farà? O quando ha parlato non manterrà la parola?” (Numeri 23:19). Dio è la nostra rocca (Salmo 18:2). Ecco perché possiamo fidarci di Lui nonostante il cambiamento costante della creazione intorno a noi.
Dio è infinito, noi siamo finiti. Noi siamo limitati dallo spazio e dal tempo ma Dio li trascende. Egli è illimitato in rapporto allo spazio perché’ è onnipresente; Dio è sempre vicino perché riempie il cielo e la terra (Ger. 23:23-24) e i cieli e i cieli dei cieli non possono contenere Dio (1 Re 8:27). Dio è pure illimitato in rapporto al tempo perché’ eterno. Egli è Dio da eternità in eternità (Salmo 90:2); è il primo e sarà con gli ultimi (Isaia 41:4). Ecco perché possiamo essere certi che Dio è “un aiuto sempre pronto nelle difficoltà” (Salmo 46:1) ovunque siamo e a prescindere da quando chiediamo.
Tutta la Bibbia è scritta per te?
Che senso ha leggere la Bibbia soltanto per sentire l’eco della tua voce e delle tue opinioni? Si legge la Bibbia per sentire la voce di Dio.
Di Matthew Johnston
“Una Bibbia con il tuo nome,” era così che si vantava una pubblicità che ho incontrato affissa all’uscita di una libreria cristiana diversi anni fa. Sembrava al primo sguardo interessante o, perlomeno, innocua. Si trattava di una Bibbia personalizzata nella quale certe parole venivano sostituite con “il tuo nome”. Mi è bastata una semplice ricerca su internet per scoprire che c’è ancora in stampa una Bibbia simile. Ecco la versione personalizzata di due brani biblici molto conosciuti nella “Bibbia di Matteo”: “Il SIGNORE è il pastore di Matteo: nulla manca a Matteo” e “Perché Dio ha tanto amato Matteo, che ha dato il suo unigenito Figlio…”
Benché tu non possieda una Bibbia con migliaia di versetti completati con il tuo nome, c’è comunque il rischio che tu legga la Bibbia utilizzando un approccio errato nell’interpretazione. È vero che il credente ha un rapporto personale con Dio in Cristo e che Dio gli parla per mezzo della sua Parola, però, dobbiamo essere attenti a non indebolire la voce di Dio, mettendo troppo di noi stessi nelle interpretazioni della Bibbia. In altre parole, dobbiamo essere attenti perché i nostri tentativi di personalizzare la Bibbia rischiano di ostacolare il modo in cui l’applichiamo alla nostra vita personale. A prescindere dalla sincerità e dalla buona volontà con cui lo facciamo, personalizzare la Bibbia in questo modo è una violazione di un comando cardinale:
Proverbi 30:6 Non aggiungere nulla alle sue parole, perché egli non ti rimproveri e tu sia trovato bugiardo (vedi anche Apocalisse 22:19)
Insomma, tutta la Bibbia è per noi nonostante che non tutta la Bibbia parli di noi.
Ogni versetto è per te anche se non parla di te
Non c’è ombra di dubbio che tutta la Bibbia sia per tutto il popolo di Dio. Tal fatto viene affermato esplicitamente nella Bibbia:
2 Timoteo 3:16-17 Ogni Scrittura è ispirata da Dio e utile a insegnare, a riprendere, a correggere, a educare alla giustizia, perché l’uomo di Dio sia completo e ben preparato per ogni opera buona.
La natura della Bibbia è legata alla sua capacità trasformatrice; quello che può fare è dovuto alla sua stessa essenza. Tutta la Scrittura è utile per la crescita del popolo di Dio proprio perché viene direttamente da Dio stesso; è divinamente ispirata. Tutta la Bibbia è per noi nel senso che ogni credente può trarre un beneficio da ogni versetto di ogni capitolo, di ogni libro della Bibbia. L’autore della lettera agli Ebrei ci dà una mano a capire in che modo la Bibbia ci è utile:
Ebrei 4:12 Infatti la parola di Dio è vivente ed efficace, più affilata di qualunque spada a doppio taglio, e penetrante fino a dividere l’anima dallo spirito, le giunture dalle midolla; essa giudica i sentimenti e i pensieri del cuore.
Questa descrizione vale per la Bibbia nel suo complesso. La Bibbia è utile perché è “vivente ed efficace” cioè può arrivare all’uomo interiore (il cuore) per cambiarci dal di dentro. Ci sono due modi principali in cui la Bibbia ci cambia: la salvezza (Romani 10:17) e la santificazione (Giovanni 17:17). Insomma, le scritture ci dicono come entrare in relazione con Dio (salvezza, 2 Timoteo 3:15) per poi dirci come vivere alla luce di quella relazione (santificazione, 1 Pietro 2:1-3).
Però, affermare che tutta la Bibbia è per me non significa che tutta la Bibbia parli di me. Allora, ricapitolando, tutta la Bibbia è per me perché l’intera Bibbia è da Dio e di conseguenza mi è utile. Quando si afferma che non tutta la Bibbia parla di me si intende mettere in risalto la varietà stilistica del testo biblico.
Riconoscere la ricca diversità del testo biblico
La Bibbia non ha un testo piatto e senza variazioni perché Dio decise di rivelarsi in modo policromo e variopinto. La bellezza di questa ricca varietà si vede in almeno due modi: la diversità letteraria e la diversità cronologica. Se vogliamo capire quali testi parlano di noi (e in che modo lo fanno) senza aggiungere parole nostre alla Parola di Dio, dobbiamo interpretarla alla luce di queste due diversità.
1. La diversità letteraria: non tutti i testi sono uguali
La Bibbia è un unico libro che è composto da altri libri. Questi 66 libri sono formati da diversi generi letterari: prosa, poesia, cronache ed epistole. Benché ci siano diversi modi per categorizzare i contenuti biblici, per i nostri scopi basta metterne a fuoco uno semplice. C’è una distinzione tra un brano descrittivo e un brano prescrittivo. I brani descrittivi raccontano ciò che è avvenuto descrivendo eventi e i brani prescrittivi ordinano ciò che si deve fare prescrivendo comandi. Se vogliamo leggere la Bibbia come sola Parola di Dio, dobbiamo essere in grado di distinguere tra brani descrittivi e brani prescrittivi. Ecco un semplice esempio di un brano descrittivo:
Giudici 3:31 Dopo Eud, venne Samgar, figlio di Anat. Egli sconfisse seicento Filistei con un pungolo da buoi; anch’egli liberò Israele.
Il testo nomina l’eroe, quantifica la portata del suo eroismo, dettaglia la sua arma preferita e sottolinea l’esito della sua missione. Tuttavia, questa storia sintetica non include nessun comando e non fornisce alcuna informazione sul mio operare; spiega semplicemente ciò che avvenne. Non mi insegna di dover sconfiggere il mio nemico né di dover aspettarmi di essere liberato da ogni difficoltà.
Quando leggiamo, dall’altro canto, un testo prescrittivo, comprendiamo intuitivamente che c’è una differenza. Ecco un esempio:
Colossesi 3:13 Sopportatevi gli uni gli altri e perdonatevi a vicenda, se uno ha di che dolersi di un altro. Come il Signore vi ha perdonati, così fate anche voi.
I tre verbi all’imperativo sono prova inconfutabile che Colossesi 3:13 è un testo prescrittivo. Il testo richiede qualcosa dai suoi lettori. Per di più, il testo stesso indica che questi comandi sono applicabili a tutti coloro che conoscono il perdono del Signore.
Essere in grado di discernere la differenza tra un brano descrittivo e un brano prescrittivo è un primo passo fondamentale. Però, questa capacità di per sé non è sufficiente per aiutarmi a leggere la Bibbia cioè a capire se parla di me. Per farla breve, non ogni brano descrittivo descrive eventi e gruppi di cui faccio parte e non ogni brano prescrittivo fornisce comandi a cui devo ubbidire in quanto non sono tutti indirizzati a me. È proprio per questo motivo che dobbiamo unire la diversità cronologica alla diversità letteraria.
2. La diversità cronologica: sapere a che punto siamo
Diversi anni fa, prima che ci fosse Netflix, noleggiai un film. Non rendendomi conto che era un film distribuito su due dvd, inserii per prima il secondo disco per sbaglio. Guardai tutta la seconda metà del film disorientato perché non sapevo a che punto fossimo nella storia (nemmeno chi fossero i personaggi). In un modo simile, se vogliamo dare un senso alla Bibbia, dobbiamo capire a che punto siamo della storia. I libri della Bibbia furono messi per iscritto nell’arco di un esteso lasso di tempo. I primi libri furono scritti da Mosè in 1445/1446 a.C. e l’ultimo libro, Apocalisse fu scritto da Giovanni incirca 95 d.C.
Dio decise di rivelarsi progressivamente e in tempi diversi. Il motivo per cui parliamo di due Testamenti, Antico e Nuovo è che l’uno ha preceduto l’altro nella storia. Non possiamo leggere bene la Bibbia se ignoriamo il contesto storico. Ci sono elementi che non cambiano, come ad esempio il fatto che la salvezza è sempre per grazia per mezzo della fede, ma Dio ha deciso di interagire con il suo popolo in modi e momenti diversi.
Mi rendo forse conto di affermare l’ovvio, ma bisogna dirlo: non siamo noi i prima a leggere la Bibbia. Ogni libro fu scritto in un determinato momento storico in vista di determinati fruitori. Dunque, uno dei modi più facili per cogliere il contesto storico è chiedersi a chi fossero originariamente rivolte le parole del testo che studiamo.
Possiamo affermare, con il rischio di semplificare troppo, che ci sono testi rivolti a singoli individui e altri rivolti a gruppi. Ci sono brani descrittivi che parlano di individui:
2 Re 6:6 L’uomo di Dio disse: «Dov’è caduta?» Quello gli indicò il luogo. Allora Eliseo tagliò un pezzo di legno, lo gettò in quel medesimo luogo, fece venire a galla il ferro e disse: «Prendilo».
Matteo 4:1 Allora Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto, per essere tentato dal diavolo.
Questi versetti riportano i dettagli d’azioni di due individui: Eliseo e Gesù. Non sei Eliseo e ovviamente non sei Gesù. Il fatto che fecero qualcosa o sperimentarono qualcosa non significa che io debba aspettarmi di fare o sperimentare lo stesso. Questi brani sono per me perché mi insegnano qualcosa sul carattere di Dio per mezzo del suo profeta (2 Re 6:6) e qualcosa sull’ubbidienza del Messia (Matt. 4:1). Però, non parlano di me in quanto non posso immaginare di poter far venire a galla asce con pezzi di legno o di dover andare nel deserto per combattere Satana.
Possiamo trovare pure brani prescrittivi rivolti a singoli, con indicazioni specifiche su cosa devono fare. Ecco due esempi:
Osea 1:2 Il SIGNORE cominciò a parlare a Osea e gli disse: «Va’, prenditi in moglie una prostituta e genera figli di prostituzione, perché il paese si prostituisce, abbandonando il SIGNORE».
Marco 11:2 dicendo loro: «Andate nel villaggio che è di fronte a voi; appena entrati, troverete legato un puledro d’asino, sopra il quale non è montato ancora nessuno; scioglietelo e portatelo qui da me.
Perché non dobbiamo prenderci in moglie una prostituta o andare in un villaggio aspettandoci di trovare un asinello che non è mai stato montato? Perché quei testi non parlano di ogni credente di ogni tempo. Questi brani descrivono rispettivamente ciò che Dio ha detto a Osea e ai suoi dodici discepoli (Marco 11:1). Di nuovo, dichiarare questi brani descrittivi non sminuisce la loro applicabilità né la loro importanza.
Ci sono pure brani rivolti a gruppi. Iniziamo con quelli descrittivi. Ecco due esempi:
Giudici 2:18 Quando il Signore suscitava loro dei giudici, il Signore era con il giudice e li salvava dalla mano dei loro nemici durante tutta la vita del giudice, perché il Signore si muoveva a compassione per i loro gemiti davanti a quelli che li opprimevano e li maltrattavano.
Colossesi 1:18 Egli è il capo del corpo, cioè della chiesa; egli che è il principio, il primogenito dai morti, affinché in ogni cosa abbia il primato.
Giudici 2:18 parla appunto di giudici che erano servi di Dio con un ruolo specifico in un periodo particolare. Anche qui ovviamente c’è da imparare perché i giudici erano servi del Dio vivente. Colossesi 1:18 descrive invece la chiesa.[1] Se faccio parte della chiesa, Colossesi 1:18 parla di me anche se indirettamente.
Poi ci sono brani prescrittivi rivolti a gruppi specifici:
Deuteronomio 22:11 Non porterai vestito di tessuto misto, fatto di lana e di lino.
Marco 8:34 Chiamata a sé la folla con i suoi discepoli, disse loro: «Se uno vuol venire dietro a me, rinunci a sé stesso, prenda la sua croce e mi segua.
Hai ragione nel pensare che non possa essere un peccato portare un vestito di tessuto misto. Quella legge era rivolta al popolo di Israele. L’inizio del discorso lo afferma in modo esplicito: “Mosè convocò tutto Israele e disse loro: «Ascolta, Israele, le leggi e le prescrizioni che oggi io proclamo davanti a voi; imparatele e mettetele diligentemente in pratica” (Deut. 5:1). Non siamo noi una parte del popolo di Israele e, comunque, Cristo ha adempiuto la legge e pertanto non siamo sotto la legge di Mosè (Matt. 5:17; Romani 10:4).
Marco 8:34 non contiene prescrizioni vincolanti solo per i dodici apostoli ed è per questo motivo che Gesù (v. 33) “chiama a sé la folla.” Poi, va notato che la sua descrizione del discepolato è palesemente generale (“se uno”). Sono prescrizioni (comandi) che valgono per ogni seguace di Cristo.
Se vogliamo raccogliere tutte le ricchezze della Bibbia, dobbiamo tenere in mente la sua diversità letteraria e cronologica. Riconoscere queste diversità ci protegge dal proiettare il nostro pensiero sul testo biblico e ci permette di interpretare la Bibbia in modo coerente con l’intenzione del suo Autore.
Sentire la voce di Dio
Il credente s’avvicina allo studio della Bibbia per conoscere il Dio della Bibbia. La Bibbia non contiene verità soggettive e malleabili che ognuno può plasmare a propria immagine e secondo il proprio piacere. La Bibbia contiene la Verità cioè verità assolute e oggettive. Non potrebbe essere altrimenti perché sono fondate sul carattere di Dio. Che senso ha leggere la Bibbia soltanto per sentire l’eco della tua voce e delle tue opinioni? Si legge la Bibbia per sentire la voce di Dio. I principi basilari sopramenzionati delineano delle linee guida per non mettere a tacere la voce di Dio. A titolo di conclusione, due spunti di riflessione che puntano a sottolineare l’importanza del giusto approccio interpretativo:
Interpretazione e applicazione: Lo studio della Bibbia deve essere portato avanti seguendo un ordine: prima l’interpretazione e poi l’applicazione. In altre parole, ci si deve chiedere “cosa significa il testo?” prima di chiedersi “come posso applicare il testo alla mia vita?” Se invertiamo l’ordine, rischiamo di applicare principi superficiali o peggio ancora, principi assenti nel testo biblico. Nessun scende in una miniera d’oro con le tasche piene d’oro affinché possa depositarci l’oro. Si scende in una miniera d’oro per trovare dell’oro e per riportarlo alla superficie. In modo simile, quando studiamo la Bibbia non portiamo il significato al testo ma scaviamo per trovarlo (l’interpretazione) per poi riportarlo alla superficie (applicazione).
Aspettative e promesse: interpretare ogni testo come se parlasse di me, potrebbe portare ad una dolorosa delusione. La logica che dice “I Vangeli raccontano che Gesù guarì delle persone durante il suo ministero terreno, guarirà anche me” produce aspettative false. Le mie aspettative devono radicarsi nelle promesse che Dio ha fatto a me in Cristo. In sintesi, devo sapere come interpretare la Bibbia nel modo giusto affinché io possa capire che cosa mi ha promesso Dio per poi sapere che cosa aspettarmi da Lui.
[1] Questo principio è vero ma si potrebbero aggiungere 2 sfumature: (1) Quando leggo un testo che descrive la chiesa devo chiedermi se si tratta della chiesa universale o di una chiesa locale; (2) Se si tratta di una chiesa locale, quella descrizione non è necessariamente applicabile direttamente in ogni caso (ad es. la colletta di cui si parla in 1 Corinzi 16; 2 Corinzi 8 e 9).
Coronavirus è uno specchio
Volenti o nolenti, ci specchiamo nel Coronavirus. Il ridimensionamento indesiderato delle nostre vite ha portato con sé un’inevitabile rivalutazione delle nostre priorità. Il Coronavirus provoca una situazione positiva perché è sempre meglio sapere la verità su noi stessi, per quanto possa essere doloroso.
Di Matthew Johnston
Volenti o nolenti, ci specchiamo nel Coronavirus. Con Coronavirus non si intende il virus vero e proprio cioè la sua situazione molecolare, bensì le situazioni da esso provocate. Quella che si chiamava normalità è stata frantumata in un batter d’occhio; ogni nostra abitudine è stata ribaltata. Persino le attività più ordinarie e incorrotte: bersi un caffè al banco del bar, passeggiare con un amico in centro oppure fare un salto al supermercato.
L’entità delle ripercussioni, sia piscologiche sia economiche, del virus non si può ancora quantificare. La nuova realtà creatasi con l’emergenza COVID non è per niente positiva. Tuttavia, non è impossibile che essa provochi situazioni positive e il fatto che ci specchiamo nel Coronavirus ne è un esempio.
Uno specchio ha una funzione assai semplice: permette di vedersi più chiaramente, mette a fuoco delle cose su cui si sorvolerebbe altrimenti: un’occhiata allo specchio può smentire le nostre illusioni. Facciamo un esempio: camminando per strada, Paolo si imbatte in una sua conoscenza e, volendo mostrarsi amichevole, gli rivolge un bel sorriso. L’altra persona risponde palesemente perplessa, reagendo al suo bel sorriso con una smorfia. Paolo deduce che l’uomo è antipatico e decide al prossimo incontro di non salutarlo. Rientrato a casa, Paolo si vede nello specchio e scopre che, tra due denti, è incastrata una tale quantità di bietole da poter fornire un contorno abbondante. Uno specchio ci mostra la verità su noi stessi: come stanno veramente le cose, invece di come pensiamo che stiano o come vorremmo che stessero.
In parole povere, tutti questi cambiamenti portati dal Coronavirus fungono da specchio, perché inducono riflessioni esistenziali. Le alterazioni ai nostri programmi ci costringono a nuovi ragionamenti sia sulle nostre circostanze sia su noi stessi. Spogliati di diversi elementi fondamentali per la nostra identità, ci siamo ritrovati ad avere più a che fare con il nostro vero io. Il ridimensionamento indesiderato delle nostre vite ha portato con sé un’inevitabile rivalutazione delle nostre priorità. Il Coronavirus provoca una situazione positiva perché è sempre meglio sapere la verità su noi stessi, per quanto possa essere doloroso.
Come funziona lo specchio del Coronavirus
Il Coronavirus è uno specchio perché Dio vuole che lo sia. Le nostre circostanze possono insegnarci qualcosa su chi siamo perché Dio ci ha fatti così. Ci ha fornito apposta gli strumenti che ci permettono di essere autoconsapevoli. Questi nostri strumenti corrispondono al resto del creato, cioè al mondo in cui ci troviamo. Cambiamo metafora, passando dallo specchio allo smartphone, perché questi dispositivi possono aiutarci a capire qualcosa sul funzionamento della nostra autoconsapevolezza. Uno smartphone ha un’antenna WIFI che può prendere un segnale WIFI ma ci vogliono sia l’antenna che il segnale per creare la connessione. Ogni essere umano ha una specie di antenna che gli permette di ricevere il segnale che emette il mondo. Senza queste due componenti il Coronavirus non ci potrebbe servire da specchio.
La nostra “antenna” è innata anziché acquisita e ci dà la capacità di interfacciare con il nostro mondo in un modo particolare. La Bibbia ne parla in diversi modi. A differenza di ogni altra creatura, “Dio creò l’uomo a sua immagine” (Genesi 1:27) ed essendo portatori dell’immagine di Dio, abbiamo la capacità di percepire la mano di Dio nel nostro mondo. L’uomo ha “il pensiero dell’eternità” inciso nel suo cuore (Ecclesiaste 3:11) in modo che i piaceri mondani lo lascino sempre insoddisfatto. “Bene” e “male” sono presenti nel lessico di ogni uomo perché la legge di Dio che è scritta nei nostri cuori e nella nostra coscienza “ne rende testimonianza” quando i nostri “pensieri si accusano o anche si scusano a vicenda” (Romani 2:15).
“Il segnale” che emette il mondo testimonia che Dio è il Creatore e il Sostenitore di tutto. “I cieli raccontano la gloria di Dio e il firmamento annuncia l’opera delle sue mani” (Salmo 19:1). Il fatto stesso che il mondo sussiste secondo leggi fisiche e logiche è garanzia della sua signoria: “Il Signore regna…il mondo quindi è stabile, e non sarà scosso” (Salmo 93:1); inoltre anche la pioggia dal cielo e le stagioni fruttifere sono dimostrazioni della bontà di Dio (Atti 14:17).
Come portatori dell’immagine di Dio possiamo vedere Dio quando si rivela nel mondo intorno a noi. Qual’ è il legame con l’effetto specchio? Grazie all’immagine di Dio in noi, siamo autocoscienti, riconosciamo la potenza di Dio nella creazione e quanto il Creatore sia diverso da noi. Ecco perché siamo consapevoli della nostra piccolezza quando ci imbattiamo nella grandezza di Dio. Chiunque si sofferma a riflettere davanti alla maestosità delle montagne o alla vastità dell’oceano si accorgerà della propria limitatezza. Insomma, “l’antenna” e “il “segnale” dimostrano che Dio esiste e che noi non siamo Dio.
Le difficoltà della vita, compreso il Coronavirus, sono similmente occasioni per renderci consapevoli della grandezza di Dio rispetto alla nostra fragilità. Chi pensava di avere il controllo della propria vita ha subito un brusco risveglio; chi pensava di essere artefice del proprio destino deve ricredersi. Mentre la normalità ci illude di avere il controllo delle nostre vite, eventi come un’epidemia (e altri di misure più piccole) ci disincantano ricordandoci la nostra fragilità. Le avversità rivelano gli strati che mascherano la realtà della nostra esistenza.
Quindi, benché ci specchiamo nel Coronavirus insieme al resto del mondo, l’immagine che si vede è sempre limitata e incompleta. Come uno specchio arrugginito che si può trovare a un mercato d’antiquariato, lo specchio del mondo è annebbiato. Il mondo è decaduto e lo siamo anche noi. Come dice Salomone, “Certo, non c’è sulla terra nessun uomo giusto che faccia il bene e non pecchi mai” (Ecclesiaste 7:20). Avremo sempre una visione sfocata e annebbiata di noi stessi, a meno che non ci procuriamo uno specchio più fedele.
Uno specchio più fedele
Non tutti gli specchi sono stati creati per lo stesso scopo. C’è una differenza massiccia tra lo specchietto della macchina e lo specchio del telescopio Hubble. Quest’ultimo può scoprire galassie, mentre lo specchietto della macchina è già un grande aiuto se può impedirci di investire il cane del vicino. Lo specchio del nostro mondo impallidisce davanti allo specchio della Parola di Dio perché penetra nell’intimità dell’uomo. Ecco come La Bibbia parla della sua efficacia:
Ebrei 4:12 Infatti la parola di Dio è vivente ed efficace, più affilata di qualunque spada a doppio taglio, e penetrante fino a dividere l’anima dallo spirito, le giunture dalle midolla; essa giudica i sentimenti e i pensieri del cuore.
La Bibbia è un libro vivente poiché è un libro in grado di leggere i suoi lettori. Valuta non soltanto le nostre azioni, ma anche la motivazione dietro di esse ossia perché’ facciamo quello che facciamo. La Scrittura attinge alla profondità del nostro cuore, per farci vedere chi siamo realmente. La nostra soggettività si schianta contro l’oggettività della Parola.
Guardando un dipinto, si può capire qualcosa dell’artista, ma ovviamente si capisce molto di più leggendo la sua autobiografia. La Bibbia è come quest’ultima perché, essendo ispirata da Dio, può dirci di più su Dio rispetto allo specchio del mondo di cui fa parte il Coronavirus. Di conseguenza, può dirci di più su chi siamo noi. Ricordati che Dio ci ha creati (portiamo la sua immagine) e pertanto ci conosce a fondo. Davide se ne meravigliò dicendo, “La conoscenza che hai di me è meravigliosa, troppo alta perché io possa arrivarci” (Salmo 139:6).
La Bibbia ci dice pure come interpretare lo specchio del mondo ossia la conoscenza innata che abbiamo di Dio che ci permette di vederlo nel suo mondo:
Romani 1:18-21 L’ira di Dio si rivela dal cielo contro ogni empietà e ingiustizia degli uomini che soffocano la verità con l’ingiustizia; poiché quel che si può conoscere di Dio è manifesto in loro, avendolo Dio manifestato loro; infatti le sue qualità invisibili, la sua eterna potenza e divinità, si vedono chiaramente fin dalla creazione del mondo, essendo percepite per mezzo delle opere sue; perciò essi sono inescusabili, perché, pur avendo conosciuto Dio, non lo hanno glorificato come Dio, né lo hanno ringraziato; ma si sono dati a vani ragionamenti e il loro cuore privo d’intelligenza si è ottenebrato.
Abbiamo già spiegato il funzionamento di questi elementi, ora occorre capire il loro significato. Pur conoscendo che Dio esiste, non lo trattiamo come Dio. In altre parole, non viviamo in modo coerente con ciò che suggerisce la nostra coscienza e viviamo quindi per noi stessi anziché per Dio. Nell’intimo di ogni uomo esiste una lotta che per natura soffoca la verità. Come un ragazzino che s’affatica a immergere un palloncino sotto acqua, proviamo tutti a zittire ciò che la nostra coscienza ci dice su Dio e ciò che esige da noi.
La Parola di Dio ci allerta su una cattiva notizia, la nostra immagine che si specchia nelle sue pagine non è del tutto rose e fiori. Pur essendo portatore dell’immagine di Dio, ogni uomo nasce peccatore e pertanto quell’immagine è deturpata dai suoi peccati. Spiritualmente parlando, siamo nati morti (Efesini 2:1-3) e siamo nemici di Dio (Colossesi 1:21) perché siamo schiavi del peccato (Romani 6:17). Questa notizia è devastante ma vera. Preferiresti pensare di stare bene mentre sei inconsapevole del tumore che cresce nel tuo petto, o sapere del tumore affinché tu possa fartelo togliere? La Bibbia ci esorta ad imboccare la seconda strada per quanto riguarda il nostro peccato. La salvezza è riservata per chi si riconosce peccatore, come spiega Gesù:
Marco 2:17 Gesù, udito questo, disse loro: «Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati. Io non sono venuto a chiamare dei giusti, ma dei peccatori».
Dio è ben consapevole che all’uomo non piacerà l’immagine che si specchia nella Bibbia e infatti invece di prendere tempo per riflettere su quanto visto tendiamo a scordarcene.
Giacomo 1:22-25 Ma mettete in pratica la parola e non ascoltatela soltanto, illudendo voi stessi. Perché, se uno è ascoltatore della parola e non esecutore, è simile a un uomo che guarda la sua faccia naturale in uno specchio; e quando si è guardato se ne va, e subito dimentica com’era. Ma chi guarda attentamente nella legge perfetta, cioè nella legge della libertà, e in essa persevera, non sarà un ascoltatore smemorato, ma uno che la mette in pratica; egli sarà felice nel suo operare.
Le parole di Giacomo ci spiegano come dobbiamo reagire a ciò che vediamo nello specchio della Parola di Dio. Se ascoltiamo la parola senza metterla in pratica, ci inganniamo. La nostra interpretazione del mondo sarà sempre inadeguata e la nostra ottica sarà sempre lacunosa. Se ascoltiamo la parola senza esserne trasformati cioè senza applicarla veramente, siamo come qualcuno che si vede in uno specchio, ma poi dimentica quello che aveva visto. Siamo come un uomo che, dopo essersi lavato i denti, si guarda nello specchio notando che intorno alla sua bocca è rimasto un po’ di dentifricio per poi non fare niente al riguardo.
La dimenticanza non cambia quello che abbiamo visto. Saremo sempre infelici ascoltatori smemorati se non guardiamo attentamente la legge della libertà (Giacomo 1:25). In che senso la Parola ci dà libertà? La Parola ci libera dal nostro peccato mostrandoci la disperazione della nostra condizione e poi la via per esserne salvati. Al centro della Parola libertà c’è un Liberatore, Gesù Cristo.
Lo specchio perfetto
Gesù è lo specchio perfetto perché è Dio incarnato. Egli è il Creatore che divenne anche creatura. “In questi ultimi giorni [Dio] ha parlato a noi per mezzo del Figlio” (Ebrei 1:2). Guardando Gesù, scopriamo cosa significa veramente essere uomo e come l’uomo può conoscere Dio. Tutti coloro che ascoltavano Gesù videro che non era un uomo qualsiasi: “si stupivano del suo insegnamento” (Marco 1:22) e dopo avere dimostrato la sua capacità di perdonare il peccato, guarendo il paralitico con il lettuccio, la folla glorificava Dio, dicendo, “una cosa così non l’abbiamo mai vista” (Marco 2:12). Gesù calmò la tempesta e i suoi discepoli “dicevano l’uno all’altro: ‘Chi è mai costui che comanda anche ai venti e all’acqua, e gli ubbidiscono?’” (Luca 8:25).
Gesù è un uomo diverso perché è la luce mondo (Giovanni 8:12). Una luce, come uno specchio, ci permette di vedere ciò che non avremmo potuto vedere altrimenti. Gesù è “la vera luce che illumina ogni uomo” (Giovanni 1:9). Dunque, Gesù risplende affinché possiamo scoprire due cose: (1) Stiamo camminando nelle tenebre; (2) Gesù è l’unica via per uscirne.
Camminiamo nelle tenebre (Matteo 4:16). Approfondiamo la cattiva notizia di prima. Siccome siamo peccatori, i nostri occhi si sono abituati alle tenebre e la nostra intelligenza è ottenebrata (Efesini 4:15). Guardando Gesù, siamo inondanti da un’alluvione di luce perché ha amato perfettamente il Padre e ha sempre amato il prossimo come sé stesso. La sua vita ci risveglia dunque alla nerezza del nostro peccato. Infatti, per natura preferiamo il buio del nostro peccato alla luce di Cristo.
Giovani 3:19-20 Il giudizio è questo: la luce è venuta nel mondo, e gli uomini hanno amato le tenebre più della luce, perché le loro opere erano malvagie. Perché chiunque fa cose malvagie odia la luce e non viene alla luce, affinché le sue opere non siano scoperte;
Tuttavia, la Luce del mondo può vincere ogni tenebra: “la Luce splende nelle tenebre, e le tenebre non l’hanno sopraffatta” (Giovanni 1:5). Le tenebre del nostro peccato non reggono il confronto con la luce e Gesù può salvarci dal nostro peccato quando confidiamo in lui.
Giovanni 12:46 Io sono venuto come luce nel mondo, affinché chiunque crede in me non rimanga nelle tenebre.
Insomma, ci specchiamo in Gesù poiché Egli è tutto ciò che l’umanità dovrebbe essere e tutto ciò che può diventare in lui. Guardando Cristo, vediamo che non possediamo le risorse necessarie per rimediare al nostro peccato e per entrare in relazione con Dio. Inoltre, vediamo che “Cristo ha sofferto una volta per i peccati, lui giusto per gli ingiusti, per condur[ci] a Dio” (1 Pietro 3:18). Innanzitutto, dobbiamo capire la portata del sacrificio vicario di Cristo: è morto al posto nostro caricandosi del nostro peccato e soffrendo l’ira del Padre che meritiamo noi. Poi, dobbiamo essere convinti che la sua crocifissione e la sua risurrezione abbiano la potenza per salvare chiunque ci crede (1 Corinzi 15:3-4). In fine, dobbiamo confidare in Cristo, rifugiandoci nella sua salvezza. Non basta credere che Cristo possa salvare qualcuno, occorre piuttosto affidargli la nostra vita affinché sia il nostro Signore.
Questa nuova vita in Cristo, caratterizzata da una crescita continua, ci viene data per grazia ed è il frutto della nostra salvezza. Chi si converte guarda a Cristo per essere salvato, ma poi s’adopera a mantenere lo sguardo verso di Lui costantemente. Cristo è uno specchio trasformatore perché più lo scrutiamo più diventiamo come lui per mezzo dello Spirito. Paolo spiega questo processo così:
2 Corinizi 3:18 E noi tutti, a viso scoperto, contemplando come in uno specchio la gloria del Signore, siamo trasformati nella sua stessa immagine, di gloria in gloria, secondo l’azione del Signore, che è lo Spirito.
Conclusione
Il salmista prega in un modo che va decisamente contro la nostra visione moderna:
O SIGNORE,
fammi conoscere la mia fine
e quale sia la misura dei miei giorni.
Fa’ che io sappia quanto sono fragile (Salmi 39:4)
È probabile che quell’ultima frase ci lasci perplessi. Di solito, miriamo a fare l’opposto cioè a ricordarci quanto siamo forti. Perché il salmista vorrebbe sapere quanto è fragile? Perché vuole sapere la verità e perché la nostra fragilità può essere sostenuta solo se ne siamo consapevoli. Se abbiamo una visione trasparente di noi stessi esiste speranza di cambiamento. Ecco perché abbiamo bisogno di uno specchio.
Coronavirus è uno specchio ma la sua efficacia sarà sempre limitata se non ci conduce a questi altri due specchi: la Parola di Dio e il Figlio di Dio. Le lezioni che abbiamo imparato quasi intuitivamente dal Coronavirus possono essere produttive solo se ci mettiamo in discussione dinanzi a questi altri specchi. Il Coronavirus potrà essere dimenticato prima o poi, così come ogni altro virus che ha mai afflitto l’uomo ma “la Parola del Dio rimane in eterno” (1 Pietro 1:25) e “Gesù Cristo è lo stesso ieri, oggi e in eterno” (Ebrei 13:8). Che il Signore ti faccia vedere nello specchio del Coronavirus affinché tu possa rincorrere questi altri due specchi più fedeli!
Arrivare al punto di poter perdonare
Il perdono è fondamentale nella vita di un Cristiano. Viviamo in un mondo caduto con uomini peccaminosi. Come credenti, dobbiamo far parte di una chiesa insieme ad altre persone non perfette in cui dimora il peccato. Le persone peccano contro di noi e noi pecchiamo contro di loro. Come rispondiamo? Che cosa facciamo?
Di Massimo Mollica
Il perdono è fondamentale nella vita di un Cristiano. Viviamo in un mondo caduto con uomini peccaminosi. Come credenti, dobbiamo far parte di una chiesa insieme ad altre persone non perfette in cui dimora il peccato. Le persone peccano contro di noi e noi pecchiamo contro di loro. Come rispondiamo? Che cosa facciamo?
Nella Lettera agli Efesini (Efesini 4:32), la Scrittura chiama tutti i credenti al perdono: “Siate invece benevoli e misericordiosi gli uni verso gli altri, perdonandovi a vicenda come anche Dio vi ha perdonati in Cristo.”
Concedere il perdono è una delle azioni più importanti della vita Cristiana ed è una delle più frequenti. Però, come l’esperienza ci insegna, è anche una delle più difficili. Quando non perdoniamo, l’amarezza si radica sempre di più nel nostro cuore; quando non perdoniamo, lasciamo crescere la rabbia nel nostro cuore. Se l’amarezza e la rabbia crescono nel nostro cuore, prima o poi avremo degli scatti d’ira, sgrideremo qualcuno o continueremo a far sì che l’altro senta il peso di quello che ha fatto. Il rapporto con l’altro si incrina e il torto subito condiziona il modo in cui lo vediamo.
In alcuni casi succede che desideriamo vendicarci in qualche modo, attraverso il silenzio, ossia rifiutando il dialogo. In altri casi usiamo la diffamazione, la violenza fisica, o persino l’omicidio. Chi non cerca la vendetta, potrebbe chiudersi in se stesso fino ad arrivare allo scoraggiamento e l'autocommiserazione. Di conseguenza resta avvilito, senza gioia ne pace, valutando molti aspetti della propria vita attraverso l’ottica del rancore.
Il perdono secondo la Bibbia è la decisione di non usare un peccato o un torto subito contro la persona che l’ha commesso. Quando perdoniamo, non permettiamo che un peccato ricevuto o un torto subito influenzi, rovini o interrompa la relazione con la persona che ha commesso il torto, per la parte che dipende da noi (Romani 12:18). Quando ‘liberiamo’ la persona che ha peccato dalla pena e dalla colpa, causate dal peccato stesso che ha commesso, il perdono libera anche noi dall’amarezza e dalla rabbia per il torto subito. Ciò significa che ci impegniamo a non rimuginare più sull’offesa.
Sebbene conosciamo quello che Dio si aspetta da noi e quello che siamo chiamati a fare, ci chiediamo: “Come arrivo al punto di poter perdonare? Capisco che cos’è il perdono, ma sono lontano da esso. Non sono pronto a perdonare. Sono ferito, scoraggiato, sono profondamente addolorato per aver subito questo torto, questo peccato. Come faccio a perdonare?”
Anni fa, il sermone del pastore americano Milton Vincent mi ha aiutato a capire meglio come arrivare al punto di poter perdonare. La capacità di perdonare deriva dalla nostra conoscenza della croce di Gesù Cristo. Vorrei riassumere il sermone presentando 4 pensieri su cui possiamo riflettere alla luce della croce di Cristo, per poter sperimentare la potenza di Dio. Questi punti dovrebbero aiutarci ad arrivare all’azione di perdonare.
1. Ricorda che, a volte, Dio intende che coloro che egli ama profondamente debbano subire dolorosamente i peccati di un altro
A volte siamo ingenui e pensiamo “ma se Dio mi amasse così tanto, non avrei sofferto queste pene!” Tendiamo a pensare che un Dio amorevole debba proteggerci dai torti, specialmente quelli particolarmente dolorosi.
Mentre Gesù Cristo soffriva, mentre subiva la grande ingiustizia della croce a causa dei peccati e delle bugie degli altri, il Padre non diceva: “Non avevo nessuna idea che sarebbe andata così. Sono sorpreso.”
Ma la croce di Cristo non era un incidente che è successo all’insaputa di Dio. Infatti nel Libro di Isaia si dice, “Ma il SIGNORE ha voluto stroncarlo con i patimenti” (53:10). Significa letteralmente che “Piacque al Signore percuoterlo.” La crocifissione e i torti subiti da Gesù non erano una sorpresa, anzi, era la volontà dello stesso Padre che diceva dal cielo, “Questo è il mio Figlio diletto.”
Se il disegno del Padre comprendeva l’omicidio di suo Figlio che doveva subire i peccati degli altri, sarà diverso per noi figli del Padre?
2. Avvicinati a Gesù che può simpatizzare con te quando subisci torti e peccati
Nella Lettera agli Ebrei si dice, “Infatti non abbiamo un sommo sacerdote che non possa simpatizzare con noi nelle nostre debolezze” (4:15). Altre persone, pastori compresi, non sono sempre in grado di simpatizzare con noi, ma Gesù può, perché comprende intimamente cosa significa soffrire e cosa significa ricevere un torto. Ogni dolore che tu provi, Gesù lo ha già sperimentato. In Isaia 53:4 si dice “erano i nostri dolori quelli di cui si era caricato”. Quando riceviamo un torto, un’ingiustizia non siamo da soli nel nostro dolore.
3. Rimettiti nelle mani di Dio Padre quando ricevi dei torti e dei peccati
Ti sei mai chiesto perché Gesù non abbia cercato di rispondere ai suoi accusatori? Pietro ci dà la risposta in 1 Pietro 2:21-23, “Infatti a questo siete stati chiamati, poiché anche Cristo ha sofferto per voi, lasciandovi un esempio, perché seguiate le sue orme. Egli non commise peccato e nella sua bocca non si è trovato inganno. Oltraggiato, non rendeva gli oltraggi; soffrendo, non minacciava, ma si rimetteva a colui che giudica giustamente.”
E lo faceva fino all’ultimo respiro, fino alla fine quando gridava le sue ultime parole, fino alla morte. Luca 23:46 lo afferma: “Gesù, gridando a gran voce, disse: ‘Padre, nelle tue mani rimetto lo spirito mio.” Gesù non ha mollato, ha lottato fino alla fine per rimettersi nelle mani di Dio.
Questa è la domanda che dobbiamo porci. Era affidabile il Padre? Aveva ragione Gesù ad affidarsi al Padre? Tre giorni dopo la sua morte il Padre lo risuscitò, dimostrando a tutti l’innocenza di suo Figlio.
4. Ricordati di quanto è grande il perdono che Dio ha concesso a te
Nella Bibbia, come abbiamo visto precedentemente in Efesini 4:32, la nostra capacità di perdonare è sempre collegata al perdono che abbiamo ricevuto noi stessi. Paolo dice di perdonarvi “a vicenda come anche Dio vi ha perdonati in Cristo”. È cruciale notare che il vero perdono cristiano scaturisce dal cuore di qualcuno che è stato perdonato da Dio.
Il punto di partenza per poter perdonare gli altri e di essere prima perdonati da Dio. Chi non è perdonato non è grado di adempiere questo comando. La Bibbia spiega che tutti noi abbiamo peccato contro Dio, il Creatore di tutti noi (Romani 3:23). Siccome Dio è santo, deve punire il nostro peccato (Romani 1:18). Perciò, noi meritiamo di essere puniti e rimanere per sempre all’inferno a causa del peccato (Efesini 2:3). La buona notizia del Vangelo è che Dio offre il pieno perdono dei propri peccati a coloro che si ravvedono e credono in Gesù Cristo e in lui soltanto (Luca 24:47; 1 Timoteo 2:5). Sulla croce, Cristo ha placato l’ira di Dio contro di noi e i nostri peccati (Romani 3:24). Si è sostituito a noi, essendo stato punito al posto nostro, caricandosi dei nostri peccati affinché Dio potesse liberarci dalle nostre colpe (2 Corinzi 5:21).
Quindi se tu non hai mai sperimentato questo perdono, ti incoraggio a considerare la promessa del Vangelo (Giovanni 5:24) “In verità, in verità vi dico: chi ascolta la mia parola e crede a colui che mi ha mandato, ha vita eterna; e non viene in giudizio, ma è passato dalla morte alla vita”. Chi crede è perdonato. Chi crede è in Cristo. Chi crede è, dal quel momento in poi, capace di perdonare anche i peccati più gravi subiti dagli altri. Coloro che sono perdonati devono ricordarsi di quanto è grande il perdono che Dio ha concesso loro.
Quando a volte siamo furiosi e feriti per i torti subiti e per i peccati degli altri, ci troviamo di fronte ad un fatto cruciale, i nostri peccati contro Dio sono più gravi perché abbiamo peccato non contro uno qualsiasi, ma contro il Creatore dell’universo. La Scrittura ci ricorda il caro prezzo del nostro perdono. Il Figlio di Dio si è incarnato e ha sparso il suo sangue per togliere la condanna eterna del nostro peccato. I torti che noi subiamo dagli altri non richiedono un prezzo così alto, quindi sono meno gravi.
Spesso minimizziamo il nostro peccato e adduciamo come scusa il fatto che nessuno sia perfetto. Quando minimizziamo il nostro peccato, minimizziamo quello per cui Gesù è morto. Quando minimizziamo il nostro peccato, soffochiamo la nostra capacità di concedere il perdono agli altri quando siamo in conflitto.
L’apostolo Paolo ribadisce in Colossesi 3:13, “Sopportatevi gli uni gli altri e perdonatevi a vicenda, se uno ha di che dolersi di un altro. Come il Signore vi ha perdonati, così fate anche voi.”
La Croce ci insegna che, mediante il sangue di Gesù, tutti i nostri peccati, passati, presenti e futuri sono stati perdonati. La montagna del nostro peccato, il nostro peccato infinito è stato tolto da Gesù. Gesù ha già passato la spugna sul passato. Dio ha mandato via i peccati che ci separavano da Lui. Più adoriamo Dio per la sua grazia e più saremo in grado di perdonare in modo più facile.
La prossima volta che trovi faticoso il perdono, ti incoraggio a riflettere su questi 4 pensieri, chiedendo a Dio di aiutarti a perdonare la persona che ti ha offeso.
Per chi sa l’inglese, ecco un link al sermone:
https://www.cornerstonebible.org/getting-to-the-place-of-forgiveness-part-2/
Il Natale era solo l'inizio
Il Creatore divenne creazione. L’Onnipotente conobbe le limitazioni dell’infanzia. Colui che sostiene tutte le cose con la parola della sua potenza era sostenuto dalla mamma. Tuttavia, il Natale era solo l’inizio.
Di Matthew Johnston
È successo davvero. Gesù bambino fu fasciato e fu coricato nella mangiatoia. I pastori, indirizzati da un angelo del Signore, lo trovarono assieme a Maria e Giuseppe. Non è una storiella leggendaria o una favola mitica bensì un avvenimento storico. Però, la storicità del Natale non significa che sia stata una nascita qualsiasi. Quel bambino che giaceva era Dio Figlio. Il Dio che era esistito da sempre nacque a Betlemme. Il Creatore divenne creazione. L’Onnipotente conobbe le limitazioni dell’infanzia. Colui che sostiene tutte le cose con la parola della sua potenza era sostenuto dalla mamma. Tuttavia, il Natale era solo l’inizio.
Gesù bambino crebbe e divenne Gesù uomo. La sua giacenza nella mangiatoia era solo il principio di 33 anni di vita. Ponderare la sua natività significa ponderare la sua vita. Volendo capire il senso della sua vita, il suo nome è un ottimo punto di partenza. “Gesù” si deriva dal nome ebraico Yeshua che significa “Yahweh è salvezza” o “Yahweh salva.” Il suo nome attinge al proposito dominante della sua incarnazione poiché Gesù nacque per salvare il suo popolo dai loro peccati (Matteo 1:21). Però, salvare il suo popolo dai loro peccati comportava placare la giusta ira di Dio contro la loro empietà. Per di più, non poteva placare l’ira di Dio senza lo spargimento del suo sangue (vedi Levitico 17:11; Ebrei 9:22). Insomma, Gesù nacque per morire. Dio figlio s’incarnò per poter morire come l’agnello di Dio che toglie il peccato del mondo (Giovanni 1:29).
Però, ti sei mai chiesto perché Gesù dovessi vivere 33 anni prima di morire? Riflettiamo sulla sua nascita a Natale e sulla sua risurrezione dai morti a Pasqua, ma cosa ne facciamo di tutto il resto? In altre parole, a che cosa serviva la sua vita terrena?
È stato Adamo a rendere necessario il Natale
Ogni storia che vale la pena conoscere va compresa nel suo complesso cioè si deve cominciare dall’inizio. La disubbidienza del primo uomo piombò la razza umana nella melma disperata del peccato. Dio gli aveva comandato di non mangiare dall’albero della conoscenza del bene e del male perché nel giorno che ne avrebbe mangiato, certamente sarebbe morto (Genesi 2:17). Quando disubbidì, Adamo sperimentò una duplice morte: morì fisicamente in quanto il suo corpo s’indebolì per poi perire e morì pure spiritualmente in quanto la comunione con Dio che godeva nel giardino fu rovinata per sempre. La morte inglobò tutti gli uomini in modo tale che tutti nascano morti nel peccato (Romani 5:12; Efesini 2:1-3).
Però, la storia non finisce lì. Gesù Cristo è il nuovo Adamo, “l’ultimo Adamo “(1 Corinzi 15:45). Il Vangelo secondo Luca agevola la nostra comprensione di questa relazione. Luca tramezza i due eventi che diedero inizio al ministero pubblico di Gesù (il suo battesimo e la tua tentazione) con la sua genealogia (3:23-38). A differenza dalla genealogia nel Vangelo secondo Matteo che procede da Abramo a Gesù (Matteo 1:2-16), quella lucana incomincia con Gesù e procede indietro fino a Adamo (3:38). L’evangelista voleva che si intendesse il legame tra Gesù e Adamo affinché si cogliesse il significato della sua tentazione da Satana. Pur essendo immerso nel giardino con cibo in abbondanza, affiancato da sua moglie, il suo aiuto adatto, Adamo cadde davanti alla tentazione satanica. Tuttavia, benché fosse digiuno da 40 giorni e isolato nel deserto, Cristo respinse l’assalto di Satana. Gesù riuscì laddove Adamo aveva fallito!
Gesù doveva diventare un vero uomo come Adamo, simile a noi in ogni cosa per poter rappresentarci davanti a Dio (vedi Ebrei 2:17). Il fallimento di Adamo fece sì che nasciamo morti a Dio ma il trionfo di Gesù fa sì che nasciamo di nuovo viventi a Dio in Cristo. L’apostolo Paolo spiega il nesso tra Adamo e Cristo così: “Infatti, come per la disubbidienza di un solo uomo molti sono stati resi peccatori, così anche per l'ubbidienza di uno solo, molti saranno costituiti giusti” (Romani 5:19). La sua vita d’ubbidienza rimedia alla nostra disubbidienza la cui origine era la disubbidienza di Adamo.
Il Natale era l’inizio di una vita di perfetta ubbidienza
Se Gesù è l’ultimo Adamo perché doveva nascere bambino invece di essere creato adulto come il primo Adamo? Doveva vivere una vita di perfetta ubbidienza dall’inizio alla fine. Doveva fare ciò che noi non avremmo mai potuto fare in ogni fase della vita umana. Gesù nacque “sotto la legge” (Galati 4:4) e la portò a compimento anziché abolirla (Matteo 5:17). Non infranse mai il comando più piccolo della legge perché fece sempre le cose che piacciano al Padre (Giovanni 8:29). Fin da bambino Gesù onorava sempre e senza esitazione i suoi genitori terrestri: “stava loro sottomesso” (Luca 2:51). Come uomo era instancabilmente ubbidente a Dio senza sosta “fino alla morte, e alla morte di croce” (Filippesi 2:8).
Quando Dio Figlio s’incarnò non smise di essere veramente Dio ma aggiunse alla sua divinità una vera umanità. Gesù in quanto uomo non sapeva ogni cosa (Marco 13:32) e viveva nella fede in Dio (Marco 6:14-29). Soffriva in quanto uomo ma la sua sofferenza non suscitava che un’ubbidienza più profonda (Ebrei 5:8: “imparò l’ubbidienza dalle cose che soffrì”). Gesù ama sempre il Padre con tutto il suo cuore, con tutta la sua anima e con tutta la sua mente e ama sempre il suo prossimo come sé stesso (vedi Matteo 22:36-40). Parlando della facilità con la quale si può peccare con la lingua, Giacomo nota che “se uno non sbaglia nel parlare è un uomo perfetto, capace di tenere a freno anche tutto il corpo” (Giacomo 3:2). Essendo un uomo perfetto, non sbagliò mai nel parlare addirittura nelle circostanze più difficili. “Oltraggiato, non rendeva gli oltraggi; soffrendo, non minacciava, ma si rimetteva a colui che giudica giustamente” (1 Pietro 2:23).
Ti sei mai chiesto perché Gesù doveva essere battezzato? Giovanni, precursore del Messia e cugino di Gesù, battezzava nel fiume giordano in vista del ravvedimento. Tutti che venivano battezzati da lui confessavano i loro peccati (Matteo 3:1-12). È quindi fonte di grande perplessità quando Gesù “si recò al Giordano da Giovanni per essere da lui battezzato” (Matteo 3:13). L’unico vero innocente, colui che non ha mai conosciuto il peccato (2 Corinzi 5:21), voleva essere battezzato, ma perché? L’apparente assurdità non sfuggì al battista il quale rispose: “Sono io che ho bisogno di essere battezzato da te, e tu vieni da me?” (Matteo 3:14). La risposta di Gesù è pregna d’importanza: “Sia così ora, poiché conviene che noi adempiamo in questo modo ogni giustizia” (Matteo 3:15). Ogni cosa che fece Gesù lo fece per noi. Adempì ogni giustizia per noi.
Il dono natalizio più bello del mondo: la giustizia altrui
Quando Dio ci salva, ci dona la giustizia altrui: la giustizia di Cristo. La salvezza non viene da noi perché non si ottiene in virtù delle nostre opere come una specie di salario che ci è dovuto. Infatti, le nostre opere non potrebbero mai procurarci la salvezza perché sono tutte infangate dai disegni malvagi dei nostri cuori. C’è un divario invalicabile che separa la sporcizia della nostra ingiustizia dalla purezza della giustizia di Dio. Se speriamo mai di essere accettabili agli occhi di Dio abbiamo bisogno dell’ubbidienza altrui. La salvezza non è in virtù delle nostre opere affinché non ce ne vantiamo perché la salvezza è in virtù delle opere di Cristo affinché ci vantiamo in lui.
Nonostante l’inadeguatezza irrimediabile della nostra cosiddetta giustizia davanti a Dio, tendiamo tutti ad aggrapparci ad essa sperando che il bene compensi il male. Però, la giustizia di Dio non può aumentare né diminuire e pertanto, quando Dio giustifica l’empio (Romani 4:5), lo fa in modo coerente con la sua giustizia divina. Siamo giustificati per fede perché dobbiamo confidare in Dio per darci la perfetta giustizia di Cristo ossia l’unica giustizia che il Dio giusto potrebbe mai accettare. L’apostolo Paolo osservò quest’inclinazione umana di fidarsi della propria giustizia nei suoi connazionali: “ignorando la giustizia di Dio e cercando di stabilire la propria, non si sono sottomessi alla giustizia di Dio” (Romani 10:3). La giustizia che Dio fornisce al peccatore pentito è la giustizia di Cristo “poiché Cristo è il termine della legge, per la giustificazione di tutti coloro che credono” (Romani 10:4). Cristo è stato fatto per noi giustizia (1 Corinzi 10:30) e perciò il credente si è rivestito della giustizia di Cristo (Galati 3:27) cosicché quando il Padre vede il credente, vede “Gesù Cristo il giusto” (1 Giovanni 2:2). Il credente gioisce di essere trovato in Cristo “avendo non già la [sua] giustizia che deriva dalla legge, ma quella che deriva dalla fede di Cristo: giustizia che proviene da Dio mediante la fede” (Filippesi 3:9).
Ecco, il dono natalizio più bello del mondo: il dolce scambio. “Colui che non ha conosciuto peccato, egli lo ha fatto diventare peccato per noi, affinché noi diventassimo giustizia di Dio in lui” (2 Corinzi 5:21). Quando crediamo per la grazia di Dio si scatena una transazione attraverso la quale Dio mette in conto a Cristo il nostro peccato e imputa a noi la sua giustizia. Avvolti nella giustizia di Cristo, il credente viene trattato da Dio come Egli tratta suo Figlio Gesù. Il Padre si compiace sempre del Figli e si compiace sempre di noi in Cristo. Il Padre non manderebbe via mai il suo diletto Figlio. Perciò, non manderebbe mai via quelli che sono coperti della sua giustizia.
Rallegrati del Dio incarnato che era adagiato nella mangiatoia! Però, non finisce lì. Gioisci pure nella sua vita di perfetta ubbidienza come l’ultimo Adamo la cui giustizia viene data al credente! Il Natale è solo l’inizio.
Indifferenza abbellita? Aiuto per valutare il tuo rapporto con Gesù
Cosa ne facciamo di Gesù? Spesso la risposta immediata è semplice: “nulla.” Vale a dire non ci si pensa neanche. Non è una questione di abbracciarlo o respingerlo ma piuttosto di ignorarlo. Però, un tale approccio non si presenta come un’indifferenza sfacciata. Così facendo, l’interlocutore si lava le mani di un ripudio totale. Non è uno spudorato rifiuto di Gesù, ma una velata apatia: un’indifferenza abbellita.
Di Matthew Johnston
Cosa ne facciamo di Gesù? Spesso la risposta immediata è semplice: “nulla.” Vale a dire non ci si pensa neanche. Non è una questione di abbracciarlo o respingerlo ma piuttosto di ignorarlo. Però, un tale approccio non si presenta come un’indifferenza sfacciata. Ad esempio, se viene posta la domanda: “Chi è Gesù?” non è insolito sentire commenti tendenzialmente positivi: cenni generici alla sua significanza storica, riflessioni vaghe sulla sua bravura morale o parafrasi sentimentali di un suo insegnamento (quasi sempre dal sermone sul monte). Così facendo, l’interlocutore si lava le mani di un ripudio totale. Non è uno spudorato rifiuto di Gesù, ma una velata apatia: un’indifferenza abbellita.
C. S. Lewis commentò l’inadeguatezza di un tale approccio, presentando il suo classico trilemma:
Sto cercando qui di evitare che qualcuno segua l’esempio delle persone che spesso si pronunciano in modo insensato nei suoi riguardi, dicendo: ‘Sono disposto ad accettare Gesù come un grande insegnante di etica morale, ma non accetto le sue pretese di essere Dio’. È un’affermazione insensata. Un uomo che fosse solo tale e affermasse quello che ha detto Gesù non sarebbe un grande insegnante di etica, ma un folle, sullo stesso piano di chi crede di essere un uovo sodo; oppure sarebbe il Diavolo in persona! Bisogna decidersi: o quest’uomo era ed è il Figlio di Dio, o era un pazzo, per non dir di peggio! Possiamo zittirlo come si fa con un pazzo; possiamo sputargli in faccia e ucciderlo come se fosse un demonio; oppure possiamo gettarci ai suoi piedi e chiamarlo Signore e Dio. In ogni modo, non diamogli una definizione insulsa come quella di ‘grande insegnante umanitario’. Non ci ha dato quella scelta, perché non era sua intenzione farlo”.[1]
Per ricapitolare, se ci si confronta con Gesù secondo le sue condizioni, rimangono tre possibilità praticabili riguardanti la sua identità: Signore, bugiardo e pazzo. L’efficacia del trilemma sta nel fatto che denuda l’indifferenza abbellita, mostrando che non è frutto della vera riflessione né di una seria interazione con la vita di Cristo. Però, in fin dei conti, non è che un’indifferenza ordinaria che si presenta come qualcosa di meno ostile e decisivo. Sostenere di apprezzare Gesù sotto certi punti di vista non accentando ciò che dice di sé stesso è un modo “gentile e educato” per respingerlo.
Valutare la legittimità dell’indifferenza
L’indifferenza di per sé non è peccato. Ad esempio, si può essere indifferenti verso il colore delle proprie scarpe senza commettere peccato. Però, se si è indifferenti davanti alle gravi sofferenze altrui, ora sì che diventa un problema. Qual è la differenza tra la sofferenza e le scarpe? La differenza sta nel valore o l’importanza dell’oggetto stesso. In altre parole, se mi manca interesse nella specificità del mio abbigliamento è una questione di preferenza (opinione). Se però, vivo con distacco il mio rapporto con chi soffre, allora diventa insensibilità, freddezza e perfino cattiveria.
Insomma, la gravità dell’indifferenza dipende dall’oggetto a cui si è rivolta. Però, non si limita alla questione di sofferenza poiché l’indifferenza risulta altresì malvagia davanti a un oggetto ragguardevole. Qualcuno o qualcosa (ad es. un gesto) può essere così degno di stima, rispetto e onore che rende l’indifferenza sbagliata. Più un oggetto è degno di interesse, più grave diventa il mostrare indifferenza nei suoi confronti. Disinteresse davanti a certe persone è inaccettabile. Gesù Cristo è proprio un tale persona:
Gesù Cristo non è mai stato indifferente nei nostri confronti...
Gesù Cristo dà un senso alla vita rendendo l’indifferenza insensata. Gesù Cristo ci ha creati assieme a tutto ciò che esiste: “in lui sono state create tutte le cose che sono nei cieli e sulla terra” (Colossesi 1:15). Egli mostrò il suo potere creativo durante la sua vita terrena quando cambiò acqua in vino (Giovanni 2:1-12) e sfamò cinquemila uomini (Matteo 14:13-21). La nostra esistenza non è frutto del caso bensì ha un’origine personale. Nulla di ciò che mi accade è senza significato perché “tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista di lui. Egli è prima di ogni cosa e tutte le cose sussistono in lui” (Colossesi 1:16, 17).
Gesù Cristo può simpatizzare con la nostra tendenza verso l’indifferenza. Gesù Cristo è Dio Figlio e come Dio esiste da sempre. Però, in un momento storico, Dio Figlio si incarnò, divenendo una parte della sua creazione. Gesù Cristo può “simpatizzare con noi nelle nostre debolezze, poiché egli è stato tentato come noi, senza commettere peccato” (Ebrei 4:15). La sua vita terrena traboccava di compassione per un popolo che lo respinse: guarì il lebbroso che poi si ribellò contro di lui (Marco 1:41), insegnò a una folla che non voleva che sfruttare i suoi poteri (Marco 6:34) e si rattristò quando il giovane ricco non abbracciò il regno di Dio (Marco 10:22).
Gesù Cristo ha dato sé stesso per salvarci dall’indifferenza spirituale. La nostra indifferenza verso Cristo si manifesta sotto forma di ingratitudine. Tutti gli esseri uomini si trovano nella stessa barca a causa del peccato: pur avendo conosciuto Dio, “non lo hanno glorificato come Dio, né lo hanno ringraziato” (Romani 1:20). Siamo indifferenti alla gloria e all’onore di Dio perché viviamo per noi stessi. Gesù Cristo “ha dato sé stesso per noi per riscattarci da ogni iniquità e purificarsi un popolo che gli appartenga, zelante nelle opere buone” (Tito 2:14).
Gesù ha vinto il più grande nemico davanti al quale nessuno è indifferente. La morte ossia il più grande nemico è la grande livella. Ognuno, dal riccone al poveraccio, deve affrontarla. Gesù sconfisse la morte morendo sulla croce. Morì, fu sepolto si risuscitò dopo tre giorni esattamente come aveva detto. Spiegò Gesù: “sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà” (Giovanni 11:25).
L’indifferenza non cambia la realtà
L’esistenza di qualcosa non dipende dal mio interesse per essa né dal mio riconoscimento di essa. La realtà (ciò che è oggettivo) non cambia in base alla mia esperienza di essa (qualcosa di soggettivo). La noncuranza non cambia dunque ciò che c’è effettivamente. Ognuno è libero di formare le proprie opinioni, però ciò non significa che siano tutte ugualmente radicate nella verità.
Gesù esiste. Visse 33 anni sulla terra. Morì di una morte ignominiosa e poi risuscitò. È seduto alla destra del Padre e tornerà per giudicare i vivi e i morti. Quando apparirà sulle nuvole con grande potenza e gloria, nessuno rimarrà indifferente. Scomparirà allora la nozione di una via di mezzo e chi non è per Cristo, dovrà riconoscersi contro di Cristo. Dinanzi a Gesù Cristo, l’unico uomo davvero ragguardevole, si vedranno solo due tipi di persone: chi piange di gioia al suo avvento e chi rimpiange di non averlo seguito veramente.
[1] C. S. Lewis, Il Cristianesimo così com’è (Adelphi, 1997), libro 2, capitolo 3, “La scioccante alternativa”.
Che cos’è il vangelo?
Perché ti dovrebbe interessare questa domanda? Il vangelo è di gran lunga il messaggio più importante che Dio ha rivolto all’uomo ed è quindi degno della tua attenzione. La parola ‘vangelo’ significa «buona notizia». È una buona notizia di una portata tale da poter risolvere il nostro problema più grave: i nostri cuori peccatori.
Perché ti dovrebbe interessare questa domanda? Il vangelo è di gran lunga il messaggio più importante che Dio ha rivolto all’uomo ed è quindi degno della tua attenzione. La parola ‘vangelo’ significa «buona notizia». È una buona notizia di una portata tale da poter risolvere il nostro problema più grave: i nostri cuori peccatori. Se siamo onesti, nel profondo delle nostre anime, i pensieri della nostra coscienza ci accusano, nonostante i nostri tentativi di convincerci che tutto vada bene. La notizia è buona perché ne abbiamo disperatamente bisogno. È un messaggio che riguarda principalmente una persona, Il Signore Gesù Cristo e si trova esclusivamente nella Bibbia, la parola di Dio. Solo lui è in grado di rimediare ai nostri peccati e, inoltre, di darci nuova vita. Sin dal principio coloro che l’hanno creduto, hanno trovato pace con Dio, il perdono dei loro peccati e una speranza viva che guarda con fiducia all’eternità.
Allora, che cos’è la buona notizia di Gesù Cristo?
Fin dal momento in cui i primi cristiani la annunciarono, la buona notizia ruotava attorno alle seguenti verità prese dalla Bibbia:
Dio ci ha creato e dobbiamo rendere conto a Lui.
Noi abbiamo peccato contro Dio e meritiamo la sua condanna.
Il rimedio di Dio per il nostro problema è la salvezza per mezzo di Gesù Cristo.
Veniamo inclusi in tale salvezza tramite la fede e il ravvedimento.
Riassumiamo questi quattro punti in questo modo: Dio, Uomo, Gesù Cristo, la nostra risposta.
DIO
Dio si rivela nella Bibbia. Il primo versetto della Parola di Dio dice che «nel principio Dio creò i cieli e la terra» (Genesi 1:1). Se tralasciamo questa verità basilare, non comprenderemo mai il vangelo. Ogni cosa fu creata da Dio e ogni cosa appartiene a Lui, noi compresi. Siamo stati creati per lui, per conoscerlo, per adorarlo, per essere soddisfatti in Lui e per ubbidirgli. Lui ha il diritto di dirci come dobbiamo vivere. Come descriveresti il carattere di Dio? Amorevole e buono? Misericordioso e benevolo? Sono tutte risposte giuste. Dio si descrive così: «misericordioso e pietoso, lento all'ira, ricco in bontà e fedeltà…che perdona l'iniquità, la trasgressione e il peccato». Poi Dio aggiunge, «ma non lascia il colpevole impunito» (Esodo 34:6-7). Questo insegnamento sul carattere di Dio plasma il concetto che abbiamo di Lui in modo profondo. A tutti noi piace un Dio amorevole, ma è più difficile accettare che questo Dio amorevole non lasci impunito il colpevole. Ma questo è l’unico Dio che esiste davvero. Dio è santo e giusto cioè puro e libero da qualsiasi peccato o imperfezione. Lui è deciso a non ignorare né tollerare mai il peccato; compreso il nostro! Un giorno, come dice la Bibbia: «Dio infatti farà venire in giudizio ogni opera, tutto ciò che è occulto, sia bene, sia male» (Ecclesiaste 12:16). Come un giudice giusto deve agire con giustizia, rispettando la legge, anche Dio giudicherà i nostri peccati secondo il suo carattere giusto. Hai bisogno del vangelo perchè devi confrontarti con il carattere di Dio. Lui è perfetto e tu non lo sei.
UOMO
Quando Dio creò i primi esseri umani, Adamo ed Eva, voleva che vivessero sotto il suo regno giusto nella gioia perfetta, ubbidendogli e vivendo uniti a lui. Però, Adamo ed Eva si ribellarono a Dio, negando la sua autorità sulle loro vite. Quando Adamo disubbidì e mangiò l’unico frutto che Dio gli aveva proibito, quella relazione con Dio fu rovinata per sempre. Adamo ed Eva, però, non sono gli unici colpevoli di peccato. La Bibbia dice che «tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio… Non c'è nessun giusto, neppure uno» (Romani 3:23, 10). Forse pensiamo ai nostri peccati come se non fossero più gravi di una qualche piccola violazione del codice stradale. Il peccato è, però, un reato molto più serio. È il rifiuto di Dio stesso e il rifiuto del suo diritto a esercitare la sua autorità su quelli a cui Lui dà vita. Il nostro peccato è un problema al livello di cuore: bramiamo delle cose che non dovremmo, nascondiamo segreti nel nostro intimo di cui nessun altro è consapevole e viviamo nel mondo di Dio senza ringraziarlo, come se non esistesse (Romani 1:21). Una volta che capisci il peccato alla luce di ciò, inizi a capire perché «il salario del peccato è la morte» (Romani 6:23). Non si tratta solamente della morte fisica, ma della morte spirituale, cioè la separazione forzata tra noi, nel nostro peccato e nella nostra ribellione, e la presenza di Dio, per sempre. La Bibbia insegna che il destino finale del peccatore che non crede è un giudizio attivo ed eterno, in un posto che si chiama «inferno».
GESU’ CRISTO
L’unica speranza in questa situazione disperata è che Dio ha avuto pietà di noi e che, grazie al suo grande amore per noi, ci ha provveduto un Salvatore, il Signore Gesù Cristo! Lui è pienamente Dio e pienamente uomo ed è quindi l’unico in grado di interporsi tra Dio e l’uomo e mediare la pace. La Bibbia dice, «Infatti c'è un solo Dio e anche un solo mediatore fra Dio e gli uomini, Cristo Gesù uomo» (1 Timoteo 2:5). Gesù è la buona notizia! Che cosa fece Gesù per essere capace di svolgere questo compito impossibile per qualsiasi uomo? L’apostolo Pietro scrisse, «Anche Cristo ha sofferto una volta per i peccati, lui giusto per gli ingiusti, per condurci a Dio» (1 Pietro 3:18). Lui visse per più di trent’anni, ubbidendo perfettamente a Dio. Non disubbidì mai ai suoi genitori, non pensò mai a nulla di impuro, non si lasciò sfuggire mai una parola cattiva, non disse mai una bugia e non ebbe mai un momento di sfiducia in Dio. Gesù salì sulla croce per morire al posto nostro, per prendere la punizione che ci meritavamo a causa della nostra ribellione a Dio. Si sostituì a noi placando la giusta ira di Dio. Gesù morì per me e per te! Lo fece per riconciliarci con Dio.
Ma la storia non finisce qui. Sebbene Gesù sia stato crocifisso, non è rimasto nella tomba. Non è solamente un Salvatore crocifisso, ma un Salvatore crocifisso e risuscitato! La resurrezione di Gesù dalla tomba è stato il modo in cui Dio Padre ha dichiarato: «ciò che Gesù sostenne di se stesso e della sua opera è vero!» (vedi Atti 17:30-31).
LA NOSTRA RISPOSTA
Il vangelo non è una buona notizia qualsiasi, perché richiede una risposta! È un messaggio da parte di Dio che dice: «Buona notizia! Ecco come puoi essere salvato dal mio giudizio! Ecco come puoi essere perdonato! Ecco come puoi avere pace con me!» Che cosa si aspetta Dio che tu faccia dopo aver compreso che Gesù morì al posto dei peccatori? Quando Gesù iniziò il suo ministero pubblico, disse alla gente, «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; ravvedetevi e credete al vangelo» (Marco 1:15). Si aspetta che tu rispondi con fede e ravvedimento. Ravvederti significa che devi essere così convinto della malvagità del tuo peccato al punto da provare un profondo senso di costernazione per la tua ribellione a Dio. Questo rimorso ti costringe ad allontanarti dai tuoi peccati e a tornare a Dio, il tuo Creatore. Dio dichiara, «Lasci l'empio la sua via e l'uomo iniquo i suoi pensieri; si converta egli al SIGNORE che avrà pietà di lui, al nostro Dio che non si stanca di perdonare» (Isaia 55:7). Questo non basta. Devi anche rivolgerti a Dio con fede. Fede è dipendere da o aggrapparti a Dio. È una fiducia basata sulla promessa che Gesù è risuscitato per salvarti dai tuoi peccati. «Dio non ha mandato suo Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui. Chi crede in lui non è giudicato…Egli stesso portò i nostri peccati nel suo corpo sul legno della croce» (Giovanni 3:17, 18; 1 Pietro 2:23). Se Dio può ritenerti giusto, lo deve fare sulla base di una giustizia che, come peccatore, tu non hai. In altre parole, l’unico modo in cui puoi essere giusto davanti a Dio è sulla base della vita giusta di qualcun altro. Qualcuno deve sostituirti, placando l’ira di Dio e dandoti la sua giustizia. È ciò che succede quando una persona è salvata da Gesù: tutti i nostri peccati sono imputati a Gesù che è stato punito per essi. La giustizia perfetta è imputata a noi, quando ci fidiamo di ciò che Cristo ha fatto per noi! Questo è quello che significa «fede»: confidare personalmente in Gesù che ha subito l’ira di Dio al posto nostro per instaurare una relazione vera con Dio grazie alla sua giustizia. La buona notizia è che tu puoi vivere in comunione con Dio, in cielo, per sempre! Non aspettare un altro giorno per confessare di esserti ribellato a Dio e di meritare la sua ira! Non restare legato ai tuoi peccati, ma allontanati da essi! Ti invitiamo a credere che Gesù Cristo è il Figlio di Dio che ha subito la morte che meritavi tu per i tuoi peccati! Credi che è risuscitato dai morti e che vive come Sostituito e Salvatore! Rivolgiti all’unica speranza della salvezza vera: Il vangelo di Gesù Cristo.
La certezza della salvezza secondo 1 Giovanni
È possibile sapere se si è salvati o meno? Secondo le Scritture, la risposta è decisamente sì. Il vero credente non dovrebbe seguire il Signore in balia di ondate di dubbi sulla salvezza bensì convinto che nulla può separarlo dall’amore di Cristo.
DI MATTHEW JOHNSTON
È possibile sapere se si è salvati o meno? Secondo le Scritture, la risposta è decisamente sì. Il vero credente non dovrebbe seguire il Signore in balia di ondate di dubbi sulla salvezza bensì convinto che nulla può separarlo dall’amore di Cristo. Per di più, una tale certezza non è riservata a credenti speciali. Assicurarsi della propria salvezza è un dovere biblico che vale per ogni credente: “Esaminatevi per vedere se siete nella fede; mettetevi alla prova” (2 Corinzi 13:5); “fratelli, impegnatevi sempre di più a rendere sicura la vostra vocazione ed elezione” (2 Pietro 1:10). Il vero credente non può accontentarsi senza la certezza della sua salvezza.
Però, come facciamo a sapere di essere davvero nati di nuovo? Che cosa può dare una vera sicurezza a un credente? Come possiamo stabilire l’autenticità della nostra fede? A tale proposito, la prima epistola di Giovanni ci è di grande aiuto. Altri libri biblici ne parlano, però quest’epistola è stata progettata apposta per spiegare come si può avere la certezza della salvezza (1 Giovanni 5:13).
CERTEZZA DI CHE COSA?
Non si può essere certi di possedere qualcosa, se non si capisce di cosa si tratta. Prima che si esponga come si può avere la certezza della salvezza, qualcosa va detto sulla salvezza stessa.
La salvezza è una realtà attuale che si può sperimentare ora, nel presente. Il vero credente possiede la vita eterna (1 Giovanni 1:2; 2:25; 5:11,12).
La salvezza è un dono da Dio. Dio stesso è colui che ci elargisce la vita eterna, la quale è stata acquistata dal sacrificio propiziatorio di Cristo (1 Giovanni 4:9, 10; 5:1 cfr. Efesini 2:8).
La salvezza comporta un vero cambiamento. Si può parlare del modo in cui Dio ci cambia sotto tre aspetti: un cambiamento di posizione, un cambiamento di potenza e un cambiamento di paternità.
(1) Posizione: Pur essendo ancora peccatori ingiusti, siamo dichiarati legalmente giusti agli occhi di Dio grazie alla giustizia di Cristo (1 Giovanni 2:1-2, 12; 4:10);
(2) Potenza: Chi crede riceve lo Spirito Santo e lo Spirito dimora in lui (1 Giovanni 4:13; 5:6)
(3) Paternità: Dio ci fa nascere di nuovo, facendoci i suoi figli (1 Giovanni 3:1-2, 9; 5:1).
La salvezza, in quanto comporta sempre un vero cambiamento, produce frutto. L’opera di Dio è sempre efficace, la salvezza non è diversa (1 Giovanni 1:5-6, 3:9).
SAPERE DI AVERE LA VITA ETERNA
Giovanni non ci lascia a tirare a indovinare sull’intento della sua prima lettera. Ci prende per la mano e enuncia lo scopo dell’epistola: “Vi ho scritto queste cose perché sappiate che avete la vita eterna, voi che credete nel nome del Figlio di Dio” (1 Giovanni 5:13). Scrive a coloro che sono già salvati (credenti) affinché possano avere la certezza della salvezza, ossia affinché sappiano che hanno la vita eterna. Ma, arrivati al quinto capitolo, non si è sorpresi di trovare ribadito un tale scopo, in quanto ci si imbatte in diverse frasi simili scritte nei primi quattro capitoli:
1 Giovanni 2:3: “...sappiamo che l’abbiamo conosciuto...”
1 Giovanni 3:14: “noi sappiamo che siamo passati dalla morte alla vita...”
1 Giovanni 4:13: “...conosciamo che rimaniamo in lui ed egli in noi...”
In parole povere, la certezza della salvezza consiste nel sapere di avere la vita eterna. Siamo sicuri di essere salvati perché vediamo il frutto dell’opera di Dio (la salvezza) nella nostra vita. Spiegata in modo più dettagliato, la certezza della salvezza è la convinzione di essere salvati da Cristo che si ottiene grazie alla fede nella Parola di Cristo la quale s’esprime nell’obbedienza per mezzo dello Spirito.
La nostra salvezza non può aumentare né diminuire, vale a dire, non si può essere più salvati né meno salvati. Dio non salva a metà. Ci possono essere però mutamenti nella certezza della salvezza. La salvezza è un’opera oggettiva compiuta da Dio, mentre la certezza è il nostro riconoscimento soggettivo di quest’opera. La unione del credente con Cristo non può mai cambiare, ma la sua comunione con Cristo, ossia la sua esperienza di quell’unione può variare.
4 MOTIVI BIBLICI PER LA CERTEZZA DELLA SALVEZZA
Chiunque può chiamarsi credente e considerarsi salvato. Si cade preda dell’inganno ogniqualvolta che ci si immagina credenti per motivi che non si trovano nella Bibbia. Insomma, ci si deve credere salvati per i giusti motivi. D’altronde, se qualcuno è carente di motivi bilici per credersi salvato, deve chiedersi se sia mai stato salvato affatto.
Innanzitutto, Giovanni scrisse la sua prima epistola per incoraggiare veri credenti volendo che fossero riempiti della gioia della certezza della salvezza. Non si deve dimenticare che anche il vero credente si sentirà sempre mancante in qualche modo e la sua vita non sarà mai perfettamente coerente con la salvezza elargitagli da Dio. Ciò non toglie che il riconoscere il proprio peccato, confessarlo, ravvedersi da esso e impegnarsi umilmente a seguire Cristo più fedelmente siano frutto dell’opera di Dio. Ecco, quindi, quattro motivi biblici per i quali si può avere la certezza:
1. La testimonianza interiore dello Spirito Santo:
Chi ha un vero rapporto con Dio ha lo Spirito di Dio (1 Giovanni 4:13).
Chi ha lo Spirito ascolta la Parola ispirata dallo Spirito (1 Giovanni 4:6).
Lo Spirito testimonia della veridicità del ministero di Cristo: la salvezza compiuta (1 Giovanni 1:1-4; 5:6-8).
Lo Spirito testimonia che, grazie al ministero di Cristo, siamo diventati figli di Dio: la salvezza applicata (1 Giovanni 3:2; cfr. Romani 8:15-16; Galati 4:6).
2. La fede in Cristo che ci si rivela nella Parola
Il vero credente crede nella vera umanità (1 Giovanni 4:2) e nella vera divinità del Figlio (1 Giovanni 5:4-5; 20).
Il vero credente crede che non ci sia ancora ira divina da placare perché Cristo è il sacrificio propiziatorio per i nostri peccati (1 Giovanni 2:1-2, 12; 4:10).
Il vero credente crede di avere la vita eterna in Cristo (1:2; 2:25; 5:11-12).
Il vero credente crede che Cristo tornerà per renderci simili a lui (1 Giovanni 3:3).
3. La fede che si concretizza in ubbidienza alla Parola
Non si tratta della perfezione perché colui che ubbidisce alla Parola riconosce la presenza del peccato nella sua vita (1 Giovanni 1:8, 10) e confessa abitualmente i suoi peccati (1 Giovani 1:9).
La vita del credente rispecchia il carattere di Dio, seppure imperfettamente: luce (1:5-6), amore (4:7-13), verità (1 Giovanni 3:18, 19).
La traiettoria (direzione; trend) generale della vita del vero credente è verso Dio (1 Giovanni 2:3-6; 3:9; 5:18).
4. Una vita che è guidata dall’amore
Il vero credente ama alla luce dell’amore salvifico che ha conosciuto in Cristo (1 Giovanni 3:16; 4:10-11; 19).
Il vero credente non ama ciò che non ama il Padre (2:15-17).
Il vero credente mostra il suo amore per Dio, amando suo fratello (1 Giovanni 4:7-11, 20-21).
L’amore del vero credente per suo fratello si concretizza in modo tangibile (1 Giovanni 3:17-19) secondo la Parola di Dio (1 Giovanni 5:1-3).
La contradizione continua della vita
La nostra vita è una contradizione continua. La contradizione è questa: Benché il nostro comportamento renda palese l’esistenza di un Dio che trascende ogni cosa (comprese le nostre opinioni), ci immaginiamo di essere in grado di capire il mondo senza il suo aiuto.
La nostra vita è una contradizione continua. Viviamo come se Dio esistesse, mentre rifiutiamo di riconoscerlo come vero Dio. In generale, lo rifiutiamo in uno di questi tre modi: Ci dichiariamo atei negando la sua esistenza, affermiamo che non si può sapere se esiste o no, o ideiamo un dio fabbricato dalle nostre opinioni. Per tutti e tre, siamo noi a decidere chi è o chi non è Dio. La contradizione è questa: Benché il nostro comportamento renda palese l’esistenza di un Dio che trascende ogni cosa (comprese le nostre opinioni), ci immaginiamo di essere in grado di capire il mondo senza il suo aiuto.
IL DILEMMA MORALE
Hai mai considerato che il modo in cui definiamo il bene e il male manifesta questa nostra contradizione? Spesso si asserisce che ognuno si possa definire personalmente il bene e il male, però non possiamo fare altro che vivere come se ci fosse uno standard assoluto.
Per esempio, è sempre sbagliato uccidere un innocente? Se dici di sì, sulla base di che cosa? Se ognuno può decidere per conto proprio, puoi veramente biasimare l’omicidio? Non possiamo criticare una persona che uccide, se è convinta che il bene significhi uccidere gli altri. Anzi, è una persona brava secondo la sua moralità personale.
Però, crediamo di poter protestare con veemenza contro l’omicidio. Se la moralità fosse relativa a ogni individuo, dovremmo abbandonare l’abilità di condannare anche le faccende più atroci. Per di più, aggettivi come atroce, cattivo e sbagliato sarebbero privi di significato. Per fortuna, nessuno vive effettivamente così.
Quando qualcuno ci fa torto, è ingiusto? Quando qualcuno ferisce un altro, è sbagliato? Quando si prenda cura di un altro, è retto? Oppure vedi ogni azione degli altri come neutra o amorale? Ovviamente no. I morali assoluti sono inevitabili e misuriamo la bontà delle azioni degli altri alla luce di essi.
Facciamo pure valutazioni morali di noi stessi. Hai mai sentito in colpa per qualcosa? Hai mai provato vergogna per qualcosa che hai detto o hai fatto? Ti è mai venuta la voglia di giustificare qualcosa che hai fatto? Ogni essere umano ha un bussolo morale (la coscienza) che funziona con diversi gradi di accuratezza. Siamo consapevoli di non essere perfetti. Sappiamo di aver fatto male agli altri in diversi modi. Perciò, rimpiangiamo le nostre decisioni, chiediamo scusa, e abbiamo voglia di andare indietro.
CONOSCERE LA FONTE È IL RIMEDIO
Perché viviamo con un senso morale che va al di là di una definizione personale? Perché non possiamo vivere in un modo coerente con l’idea che i morali sono relativi e ognuno può decidere per conto proprio? Perché quest’idea non è in grado di spiegare la vita così com’è davvero.
La contradizione scaturisce dal fatto che sfruttiamo l’esistenza dei morali assoluti, ma non riconosciamo la loro fonte. Ogni volta che affermiamo che una cosa è bene o male, presupponiamo l’esistenza di un Dio che trascende ogni cosa. Proprio perché il mondo è suo e noi siamo le sue creature, non possiamo fare altro che usare il suo standard e vivere come se questo Dio esistesse.
Allora, come risolviamo questa contradizione? I nostri cuori rimarranno irrequieti nella contradizione continua della nostra vita finché non conosciamo il Dio vivente che si è rivelato nella sua Parola. Dio esiste e ha parlato. Solo Egli è capace di spiegare il mondo così com’è davvero. I morali assoluti sono radicati nel suo carattere perfetto, e li conosciamo perché ci ha dato una coscienza. Dobbiamo rendere conto a questo Dio e la nostra coscienza testimonia alla sua esistenza. Se questo non è il caso, come spiegheresti tu questa contradizione?
Speriamo che questo breve articolo ti abbia spinto a riflettere su un argomento importantissimo. Ci farebbe piacere se potessimo approfondirlo insieme. Contattaci a www.luxevangelica.org.
Gli evangelici: Qual è la differenza?
Storicamente, la fede evangelica è stata ben riassunta in cinque affermazioni che chiarendo il vangelo biblico, prendono le distanze dal pensiero della Chiesa romana. A chi mi chiede quali siano le differenze sostanziali tra la fede evangelica e quella cattolica, cito queste cinque affermazioni. Iniziano tutte con la parola “solo”.
Di Massimo Mollica
Benché la fede evangelica sia diffusa in tutto il mondo, è ancora poco conosciuta in Italia. Storicamente, la fede evangelica è stata ben riassunta in cinque affermazioni che chiariscono il vangelo biblico, prendendo le distanze dal pensiero della Chiesa cattolica romana. A chi mi chiede quali siano le differenze sostanziali, cito queste cinque affermazioni che iniziano tutte con la parola “solo”.
SOLA SCRITTURA (Sola Scriptura)
Come stabilisci a che cosa credi? In base a quale criterio consideri una cosa giusta o sbagliata? Sono principi che hai appreso dai tuoi genitori, dalle tue riflessioni sulla vita, dalla Chiesa o dalla società? Attingi dalla filosofia o dalla tua esperienza? Qualunque sia la fonte delle tue convinzioni, essa è de facto l’autorità a cui ti sottometti per la tua vita.
A queste domande un evangelico risponderebbe “Sola Scrittura”, perché la Bibbia è l’unica fonte di rivelazione divina. Perciò la Sacra Bibbia è l’unica autorità in ogni questione di fede e di vita pratica a cui dobbiamo vincolare la nostra coscienza.
La Chiesa romana sostiene, invece, che sullo stesso piano ci sono due fonti di rivelazione divina: la Sacra Scrittura e la Sacra Tradizione. Esse formano una triplice autorità insieme al Magistero della Chiesa. Tuttavia, non sono proprio alla pari, perché è il Magistero che stabilisce qual è la giusta interpretazione delle fonti di rivelazione divina, siano esse della Bibbia o della Tradizione. Il papa come capo della Chiesa fa parte del Magistero insieme ai vescovi. In questo modo, la Parola di Dio sembra essere sottoposta alla Chiesa.
Per la fede biblica, evangelica, è vero il contrario: ogni tradizione e dottrina, anche la Chiesa stessa, deve essere ricondotta alla Parola di Dio e deve essere scrutata e valutata alla luce della Bibbia, perché solo essa è ispirata da Dio. L’Apostolo Paolo afferma: “Ogni Scrittura è ispirata da Dio” (2 Timoteo 3:16-17). L’Apostolo Pietro dichiara che nessuna parola della Bibbia “venne mai dalla volontà dell’uomo, ma degli uomini hanno parlato da parte di Dio, perché sospinti dallo Spirito Santo” (2 Pietro 1:21). La Bibbia ha origine in Dio, è il vero soffio divino; perciò, è infallibile e autorevole in tutto e per tutto. Questo fa della Bibbia l’unico strumento adeguato e sufficiente per distinguere ciò che è degno di fede da ciò che non lo è.
Dio non si è servito di secoli di tradizioni umane per definire la verità cristiana. Già nel primo secolo si poteva dire riguardo alla fede, intesa come credo cristiano, “è stata trasmessa ai santi, una volta per sempre” (Giuda 3). Dio la rivelò nella Sacra Bibbia. La tradizione, perciò, serve a spiegare la verità già esistente e consegnata nella Bibbia. Purtroppo, nel corso dei secoli, la Chiesa romana ha riconosciuto come rivelazione divina dottrine e credenze non conformi alle Scritture. Un’indagine approfondita della Bibbia rivela che il purgatorio, le indulgenze, i dogmi mariani dell’Immacolata Concezione e dell’Assunzione di Maria Vergine in cielo, la preghiera ai santi e l’infallibilità papale non sono confermate dalla Bibbia. Ma la Chiesa li approva appellandosi alla Tradizione. Gesù, invece, afferma che la parola scritta di Dio è l’autorità decisiva, ultima e finale al di sopra di ogni tradizione (Marco 7:1-13). La coscienza dell’uomo deve essere vincolata soltanto dalla Parola di Dio nella Sacra Bibbia perché solo in essa Dio ha rivelato come l’uomo può essere salvato e come deve vivere come cristiano.
SOLO CRISTO (Solus Christus)
Noi siamo separati da Dio. La Bibbia dichiara che la causa di questa separazione è la nostra disubbidienza a Dio, il peccato che corrompe interamente la natura umana. Ma chi può ristabilire la pace tra noi e Lui? Chi farà da mediatore fra noi e Dio?
Per tre motivi, basati sulle verità bibliche, un evangelico risponde: “Solo Cristo”.
Cristo è l’unico Salvatore del mondo
Per quanto popolari e seguiti possano essere i maestri e i fondatori di altre religioni, solo Gesù Cristo può salvarci dai nostri peccati. Egli dice: “Io sono la via, la verità e la vita, nessuno viene al Padre; se non per mezzo di me” (Giovanni 14:6). Quest’unica via di salvezza è ribadita anche dall’Apostolo Pietro: “In nessun altro è la salvezza; perché non vi è sotto il cielo nessun altro nome che sia stato dato agli uomini, per mezzo del quale noi dobbiamo essere salvati” (Atti 4:12). Le parole di Gesù e degli apostoli non lasciano alcuno spazio al dubbio.
Cristo è l’unico sacrificio per i peccati
Siamo tutti d’accordo che chi commette un reato, dev’essere punito adeguatamente dalla legge. Altrimenti che giustizia è? Tutti abbiamo peccato contro Dio (Romani 3:23). In Lui non c’è nulla di imperfetto o di male. Egli è giusto, perciò non può ignorare o sorvolare il peccato. Sarebbe come se lo approvasse. La pena del peccato è la morte (Romani 6:23), l’eterna e definitiva separazione dal Creatore.
C’è un solo modo per essere perdonati da Dio senza che Egli violi la propria giustizia: qualcuno deve essere condannato per i nostri peccati. La Bibbia dice che “senza spargimento di sangue, non c’è perdono” (Ebrei 9:22). Solo Cristo, innocente e moralmente perfetto, che non doveva morire per le proprie colpe, ha potuto sostituirsi a noi e sacrificarsi al nostro posto. L’Apostolo Paolo lo esprime così: “Dio mostra la grandezza del proprio amore per noi in questo: che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi” (Romani 5:8). La morte di Gesù ha placato completamente l’ira giusta di Dio contro il nostro peccato. La sua risurrezione è la prova che Dio ha accettato il suo sacrificio e che Lui ha sconfitto la morte, cioè la pena del peccato.
La Bibbia dice chiaramente che il sacrificio di Cristo è unico, sufficiente e perfetto e non deve essere ripetuto (Ebrei 7:25-27). Il suo valore è eterno: “Cristo ha sofferto una volta per i peccati, lui giusto per gli ingiusti, per condurci a Dio” (1 Pietro 3:18). La Chiesa romana, però, sostiene che il sacrificio di Cristo viene ripresentato nel rito dell’eucaristia nella Messa. Però, se il sacrificio di Gesù si ripresenta nella Messa, come fa ad essere veramente unico?
La Chiesa romana sostiene anche che chi muore nella grazia, vale a dire un fedele, deve scontare le pene temporali dei propri peccati nel purgatorio. C’è da domandarsi, allora, se sono necessari ulteriori sofferenze nell’aldilà, il sacrificio di Gesù è stato davvero sufficiente?
Cristo è l’unico mediatore fra Dio e l’uomo
L’Apostolo Paolo scrive: “C’è un solo Dio e anche un solo mediatore fra Dio e gli uomini, Cristo Gesù uomo” (1 Timoteo 2:4). Uno solo. Quando un evangelico dice “Solo Cristo,” sta affermando che nessun altro al di fuori di Gesù è qualificato per fare da mediatore tra l’uomo e Dio, perché solo Gesù ha in sé la pienezza di Dio e allo stesso tempo è veramente uomo. È il Figlio di Dio incarnato, il Dio-uomo.
La Chiesa romana, invece, afferma sé stessa come mediatrice, insieme a Cristo, sostenendo che non vi è salvezza al di fuori della Chiesa. La Madonna è altrettanto considerata una mediatrice fra l’uomo e Dio e i santi canonizzati intercedono per quelli che sono rimasti sulla terra, offrendo i loro meriti. La Chiesa romana sostiene che Maria e i santi aiutano il fedele ad avvicinarsi a Cristo. La fede evangelica invece vede un grande pericolo nell’aggiungere e nell’affiancare questi alla mediazione e all’intercessione di Cristo. Si corre il rischio di togliere sostanzialmente qualcosa da Lui, oscurando la Sua gloria. Lo sguardo di fede, che deve essere fissato solamente e semplicemente su Cristo, rischia di diventare uno sguardo di fede annebbiata da Maria e dai santi. La fede evangelica afferma la sufficienza dell’intercessione di Gesù, come la Scrittura dice, “Perciò egli può salvare perfettamente quelli che per mezzo di lui si avvicinano a Dio, dal momento che vive sempre per intercedere per loro” (Ebrei 7:25).
SOLA FEDE (sola fide)
Cosa bisogna fare per essere salvati e avere la vita eterna? La Bibbia è chiara: “Credi nel Signore Gesù, e sarai salvato” (Atti 16:31). Anche il peggior peccatore può ricevere il perdono da Dio e diventare giusto davanti a Lui se pone la sua fede in Cristo: “L’uomo è giustificato mediante la fede senza le opere della legge” (Romani 3:28). Benché colpevoli di aver trasgredito la legge di Dio, Egli, in quanto nostro Giudice, ci giustifica o ci dichiara giusti, senza alcuna opera o merito da parte nostra. Né la nostra bontà né le nostre opere sono coinvolte nella salvezza dell’anima. È donata gratuitamente a chi crede in Cristo Gesù, in quello che Egli ha compiuto morendo sulla croce al posto nostro. La morte di Gesù aveva questo scopo: Dio lo ha punito come se Lui avesse commesso i nostri peccati per poter dichiarare giusto il peccatore, come se avesse vissuto la vita perfetta di Gesù. L’Apostolo Paolo spiega “a chi non opera ma crede in Colui che giustifica l’empio, la sua fede è messa in conto come giustizia” (Romani 4:5). Lo scambio dei nostri peccati con la giustizia di Cristo può avvenire attraverso la fede soltanto. Avere fede non significa riconoscere la mera storicità della persona di Gesù Cristo. Significa piuttosto credere nel suo sacrificio fino al punto di dipendere totalmente da Lui per la salvezza dell’anima. È una fiducia personale in Gesù Cristo.
Qui veniamo alla differenza principale tra gli evangelici e la Chiesa romana. La Bibbia dichiara esplicitamente che “è per grazia che siete stati salvati, mediante la fede; e ciò non viene da voi; è il dono di Dio. Non è in virtù di opere affinché nessuno se ne vanti” (Efesini 2:8-9). La Chiesa romana, pur affermando l’importanza della fede, insiste che il sistema sacramentale, insieme alle opere e alla carità, aiuta il fedele a meritare la vita eterna. La fede biblica, invece, è quando il peccatore abbandona ogni speranza nei propri sforzi per confidare in Cristo. Senza questo tipo di fede, non c’è salvezza. La fede evangelica si chiede quanto l’enfasi della Chiesa romana sul sistema sacramentale e sulle opere sia compatibile con l’insegnamento biblico sulla salvezza per sola fede, senza le opere.
SOLA GRAZIA (Sola Gratia)
Come abbiamo visto, non esiste cosa alcuna che tu possa fare per meritare la salvezza. Dio non è in debito con nessuno e non è obbligato a salvare i peccatori. La salvezza è per sola grazia.
Mentre “sola fede” parla dell’affidarsi solamente a Cristo per il perdono, “sola grazia” sottolinea il carattere immeritato e gratuito della salvezza. La grazia di Dio è il suo amore verso di noi, peccatori indegni. È basata esclusivamente sul suo carattere pietoso. Per grazia Egli ha provveduto alla salvezza per noi mandando suo Figlio Gesù Cristo a morire sulla croce. Persino la fede è un dono di Dio, come è stato già citato: “Infatti è per grazia che siete stati salvati, mediante la fede; e ciò non viene da voi; è il dono di Dio” (Efesini 2:8).
La Chiesa romana sostiene che la grazia è la capacità conferita da Cristo all’uomo di fare opere attraverso le quali lo aiuta a meritarsi la salvezza. Questa grazia è incanalata per mezzo di sacramenti, elemosine, penitenze, preghiere a Maria e agli altri santi. Per mezzo di questa grazia incanalata, l’uomo accresce i propri meriti. In questo modo, l’uomo partecipa alla propria salvezza.
È un concetto che segna una divergenza notevole tra gli evangelici e i cattolici. La Bibbia afferma che l’uomo non può collaborare con Dio per guadagnarsi la salvezza, perché è morto nei propri peccati e incapace spiritualmente (Efesini 2:1). L’unica speranza dell’uomo è che Dio abbia pietà di lui e intervenga per grazia. Ed è proprio quello che Egli fa: “Ma Dio, che è ricco in misericordia, per il grande amore con cui ci ha amati, anche quando eravamo morti nei peccati, ci ha vivificati con Cristo, è per grazia che siete stati salvati” (Efesini 2:4-5). Senza alcun merito, l’uomo è salvato per sola grazia.
Quando affermiamo che la salvezza è per “sola fede” e per “sola grazia” non intendiamo negare o sminuire l’importanza dell’ubbidienza a Dio. Intendiamo piuttosto dire che le nostre opere di ubbidienza non hanno alcun merito salvifico, e che sono il frutto dell’opera dello Spirito Santo nella vita del credente, come scrive l’Apostolo Paolo: “Infatti siamo opera sua, essendo stati creati in Cristo Gesù per fare le opere buone, che Dio ha precedentemente preparate affinché le pratichiamo” (Efesini 2:10).
SOLO A DIO LA GLORIA (Soli Deo Gloria)
La frase “Solo a Dio la Gloria” dà rilievo alla verità che il fine per cui Dio salva peccatori è per la Sua gloria e per nessun altro. Quando si aggiungono tradizioni umane alla Parola di Dio, mediatori a Cristo, opere alla fede e un sistema sacramentale alla grazia, la conseguenza inevitabile è che l’uomo e la Chiesa si prendono il merito della salvezza, minimizzando la gloria che è dovuta a Dio soltanto. Questo pericolo si osserva quando la Chiesa romana affianca al culto di Dio la venerazione di Maria e dei santi. Benché la Chiesa romana dica che non si adorano i santi e le loro immagini, ma si venerano, questa distinzione appare forzata e non trova alcun precedente nella Bibbia. Il Salmo 115:1 dice: “Non a noi, o SIGNORE, non a noi, ma al tuo nome da’ gloria”. Solo Dio ne è degno perché la salvezza è interamente opera sua (Apocalisse 19:1).
Sola Scrittura. Solo Cristo. Sola Fede. Sola Grazia. Solo a Dio la Gloria. Queste cinque frasi esprimono le cinque differenze più importanti tra gli evangelici e i cattolici. Sono da considerare profondamente perché definiscono il vangelo biblico, rivelatoci nella Bibbia da Dio, l’unico in grado di garantire la salvezza a chi crede.
I pastori della Lux Evangelica sono sempre disponibili per approfondire questi argomenti insieme, con spirito di amicizia e di ricerca onesta. Ci farebbe piacere parlarne con te e sapere cosa ne pensi. Se hai voglia di approfondire l'argomento scrivici un'e-mail a info@luxevangelica.org
Il nostro mondo: progetto o caso?
È possibile riconoscere se qualcosa è frutto di un progetto? Esistono dei criteri per mezzo dei quali possiamo determinare se qualcosa è stato progettato o se invece è accaduto in modo naturale?
DI MASSIMO MOLLICA
È possibile riconoscere se qualcosa è frutto di un progetto? Se passando sotto un arancio trovassimo 20 arance sparse per terra intorno all’albero, concluderemmo che le arance sono cadute in modo casuale o naturalmente. La posizione casuale delle arance potrebbe essere dovuta al forte vento. Però, se trovassimo tutte le arance per terra ordinate in cinque file di quattro arance ciascuna, distanti 25 cm fra loro, diremmo che la loro posizione ordinata è dovuta a qualcuno che ha distribuito la frutta per terra in modo preciso. Implica cioè che qualcuno abbia progettato questa configurazione.
Esistono dei criteri per mezzo dei quali possiamo determinare se qualcosa è stato progettato o se invece è accaduto in modo naturale (come le arance sparse)? Ogni cosa che è stata progettata dimostra una o più delle seguenti evidenze e queste si possono usare come criteri di base per rispondere.
L'insieme di più parti o componenti funziona per/ha uno scopo specifico;
Le parti sono allineate e combaciano perfettamente;
Ogni parte ha una misura e una forma precisa;
Ogni parte svolge la propria funzione in accordo con le altre e nei tempi giusti;
Facciamo un esempio. Una bicicletta è un sistema semplice che dimostra l'esistenza di un progetto. È formata da diverse parti, la sua struttura ha la forma appropriata per distribuire il peso del ciclista, le corone hanno la misura giusta e combaciano perfettamente con gli spazi nella catena, questa ha la giusta lunghezza per coprire la distanza tra i pedali e la ruota. Quando tante parti sono sistemate in un modo preciso per svolgere una certa funzione, allora abbiamo un sistema che dimostra l’evidenza di un progetto, come nel caso della bicicletta.
Più una cosa è complessa e ordinata, più è indicativa di una progettualità intenzionale. Spesso una cosa può avere diversi sistemi che interagiscono fra loro, come per esempio un’automobile. Questa ha un sistema di combustione (il motore e il catalizzatore), un sistema frenante, un sistema elettronico e un impianto meccanico (gli ingranaggi, gli assi e le ruote). Questi molteplici sistemi devono funzionare insieme e devono interfacciarsi fra loro in modo preciso e con i tempi giusti.
Il mondo intorno a noi è pieno di creature e organismi complessi. L’universo è pieno di meraviglie come supernove, pianeti e galassie innumerevoli e distanti. È utile applicare questi stessi criteri al mondo intorno a noi per vedere se ci diano la prova di un mondo frutto di un progetto o se emerga invece la conferma di un mondo che esiste per motivi casuali, naturali e per processi non pilotati. Vorrei fare degli esempi semplici e comprensibili che evidenzino un progetto inerente all’universo.
IL PROGETTO E IL REGNO ANIMALE
Con i suoi circa 6 metri di altezza, la giraffa si distingue da ogni altro animale. Il suo sistema vascolare deve essere in grado di servire un collo lungo circa 2 m. Con la testa in alto, il cuore della giraffa deve pompare il sangue al cervello contrastando la forza di gravità; le vene e le arterie devono reggere la pressione elevata del sangue in circolazione. Per fare questo la giraffa necessita di un cuore grandissimo che pesa infatti più di 11 kg (il cuore umano pesa circa 300 g). Con un cuore così grande la giraffa potrebbe trovarsi in grande difficoltà quando abbassa la testa per dissetarsi. Quando ha la testa in basso, il sangue pompato dal cuore e aiutato dalla forza di gravità le arriverebbe al cervello con una pressione sanguigna così elevata da farle esplodere le vene, se non fosse per alcune sue caratteristiche importanti. [Non sarebbe certo una bella fine per la vita della giraffa.] Per mantenere la giusta pressione tra cuore e cervello, è fornita di un sistema intricato e complesso di regolazione della pressione. Le vene e le arterie sono progettate con le pareti rinforzate, ci sono valvole bypass e una rete di vene e capillari (la rete mirabile) tra il collo e il cervello funge da spugna per rallentare il flusso del sangue e per regolarne la pressione quando la giraffa abbassa la testa. È evidente che la giraffa è il risultato di un progetto. Il cuore, le vene, le arterie, le valvole, la rete di capillari sotto il cervello funzionano in all'unisono per mantenere in vita questo animale, come suggerisce criterio 1. La giraffa soddisfa inoltre gli altri tre criteri in quanto tutte le parti concordano in modo ideale, interagendo fra loro nei tempi e nei modi corretti.
IL PROGETTO E L’ASTRONOMIA
La Terra si trova nella zona abitabile del nostro Sistema Solare. Questo vuol dire che la distanza tra la Terra e il Sole è idonea per sostenere la vita. Se la Terra fosse più vicina al Sole, l’acqua evaporerebbe e quindi gli oceani si asciugherebbero. Di conseguenza non potremmo sopravvivere su questo pianeta. D’altronde, se la Terra fosse più distante dal Sole, l’acqua si congelerebbe e le temperature sarebbero troppo rigide per permettere la vita delle piante, degli animali e degli esseri umani.
Inoltre, l'angolo di inclinazione della Terra è idoneo per darci le stagioni, che a loro volta sono necessarie per permettere la vita. Le variazioni tra il freddo dell’inverno e le temperature più calde sono essenziali per la crescita e il raccolto delle colture, dando riposo alla terra per ricostituire i suoi nutrienti.
La Luna è un componente fondamentale, perché la sua forza gravitazionale ha reso e mantiene essenzialmente stabile quest’inclinazione nel corso dei millenni. Per di più, l’attrazione gravitazionale esercitata dalla Luna rende possibile la vita sulla Terra, perché crea le maree oceaniche che insieme alle correnti fanno sì che le acque non stagnino e si puliscano.
La Terra, il Sole, la Luna e le stelle operano insieme per sostenere e facilitare la vita dell’uomo sulla Terra (criterio 1). Sono allineati in un modo preciso (criterio 2) interagiscono nei giusti tempi per svolgere la loro funzione (criterio 4). L’evidenza di un Progetto è chiara.
IL PROGETTO E IL CORPO UMANO
Arriviamo finalmente al corpo umano che è un esempio incredibile di sistema di sistemi, vale a dire tanti sistemi complessi che interagiscono fra loro. Le nostre cellule non esistono in modo indipendente, ma solo insieme formano tessuti che a loro volta formano organi. Questi organi sono collegati fra loro a formare diversi sistemi e apparati. I nostri 11 sistemi primari operano insieme per rendere la nostra vita possibile. Si connettono anatomicamente e interagiscono meccanicamente, chimicamente ed anche elettronicamente rendendoci abili a respirare, crescere, digerire, vedere, muoverci, parlare e quant’altro. I sistemi sono interdipendenti ma senza uno di essi, il nostro corpo non potrebbe restare in vita. Per esempio, l’apparato digerente fornisce i nutrienti al corpo, l’apparato respiratorio lo approvvigiona di ossigeno e l’apparato circolatorio trasporta i nutrienti e l’ossigeno a tutto il corpo. Ogni funzione deve essere presente per sostenere la nostra vita.
Ognuno di questi sistemi è composto da diversi organi che sono fondamentali per la funzione principale del singolo sistema. Non possiamo sopravvivere senza i nostri polmoni e i polmoni non possono gonfiarsi senza la presenza del diaframma. Non possiamo digerire senza l’intestino tenue e la digestione è facilitata dallo stomaco e assistita dalla bile, che a sua volta è prodotta dal fegato e conservata nella cistifellea. Non possiamo neanche dare per scontato che avvenga la circolazione del sangue nei letti capillari [1] che ricoprono questi organi per facilitare l’assorbimento dei nutrienti e dell’ossigeno. La circolazione del sangue dipende dal cuore. Ogni lato del cuore è formato da due cavità, l’atrio e il ventricolo. Entrambe sono necessarie per la circolazione del sangue. Queste insieme rendono il cuore in grado di sviluppare una pressione sanguigna sufficiente per attraversare tutto il corpo. La struttura del cuore, con i suoi due lati separati, è ottimizzata per due circuiti diversi: il lato destro è più piccolo per la circolazione polmonare, più vicina al cuore. Il lato sinistro è più grande per la circolazione sistemica, per raggiungere cioè le estremità del corpo come i piedi e il cervello, senza menzionare gli altri organi e letti capillari.
Quando esaminiamo il corpo umano vediamo una meraviglia di sistemi e di organi diversi che sono organizzati in modo preciso e con le misure giuste, che si interfacciano meccanicamente, chimicamente ed elettronicamente secondo i tempi giusti. Le singole parti hanno la misura e la forma adeguata alla loro funzione e per essere contenute tutte all’interno del corpo. L'insieme opera in accordo per la nostra esistenza. I criteri per riconoscere la progettualità sono tutti quanti soddisfatti.
CONCLUSIONE
Viviamo in un mondo che vanta grandi e importanti prodezze architettoniche e di ingegneria. Dai grattacieli più alti ai microprocessori più capaci, dai sottomarini nucleari agli aerei da caccia “stealth”, dai satelliti per le telecomunicazioni agli smartphone, viviamo in un mondo con sistemi complessi e meravigliosi. È naturale affermare che queste prodezze sono state ideate, progettate e costruite da ingegneri e scienziati, da uomini e donne intelligenti perché dimostrano i criteri di progetto.
L’universo dimostra palesemente di essere un capolavoro di precisione progettuale. La complessità e l’armonia con la quale funziona qualunque forma di vita sulla Terra, vegetale o animale che sia, sono stupefacenti. Il modo in cui ogni singola parte interagisce e collabora con quello che la circonda evidenzia che esiste un progetto globale e universale. È dunque normale concludere che esiste un Progettista saggio e intelligente.
Lungi dall’essere un libro antiquato o disconnesso dalla realtà, la Bibbia afferma esattamente questo, spiegando l’origine del Progetto dell’Universo. Considerando la questione dell’origine di tutto, Geremia 10:12 dice: “Egli [Dio], con la sua potenza, ha fatto la terra; con la sua saggezza ha stabilito fermamente il mondo; con la sua intelligenza ha disteso i cieli”. Il Dio che si rivela nella Bibbia ha creato tutto e impiega parole come “potenza”, “saggezza” e “intelligenza” per descrivere l’opera della propria mano. Per chi vuole vederla, l’impronta del Creatore è palese e innegabile perché essa è percepita nella realtà che ci circonda (Romani 1:20). I criteri di progetto sono soddisfatti dal nostro mondo perché è frutto di un progettista potente, saggio e intelligente.
Che esista un mondo che dimostri i segni di un Progetto non dovrebbe sorprenderci. È proprio quello che dovremmo aspettarci leggendo il primo versetto della parola del Creatore: “Nel principio Dio creò i cieli e la terra” (Genesi 1:1). Nell'impiegare parole come “creare”, “fare”, “produrre”, “formare”, “stabilire” e “intessere” (Genesi 1, Salmo 119:73, Isaia 45:18), la Bibbia dimostra che possiamo fare affidamento sulle sue affermazioni riguardanti l’origine di Tutto. Se il Dio della Bibbia ha veramente creato tutto, noi dovremmo essere in grado di determinare che l’universo è stato progettato, come abbiamo fatto in quest’articolo.
Questo accordo tra la Bibbia e il mondo intorno a noi implica che dobbiamo prestare più attenzione alla Bibbia quando cerchiamo di capire e spiegare l’origine e la storia del nostro mondo e della nostra razza. Se noi, la nostra terra e il nostro universo non derivano soltanto da forze naturali e processi non pilotati, ne deriva una conseguenza importante, liberatoria e pratica per la nostra vita che va anche oltre una ricerca intellettuale, scientifica o storica: tu sei stato, io sono stato, noi siamo stati specificatamente creati da questo Dio saggio e intelligente per un fine particolare.
Ciò dovrebbe farci considerare seriamente il nostro rapporto con il Creatore e farci riflettere profondamente su quali siano le basi della nostra speranza per il futuro.
[1] Un letto capillare è un fitto intreccio di microvasi che ricoprono gli organi e i tessuti. Le pareti capillari consentono uno scambio bidirezionale di nutrienti e di sostanze di scarto che passano attraverso delle pareti.
L’insidia della tradizione degli uomini (Marco 7:1-13)
La questione “tradizione” viene a galla ogni qualvolta ci domandiamo perché facciamo ciò che facciamo per poi rispondere: “abbiamo sempre fatto così.” I farisei, quegli avversari instancabili del nostro Signore al tempo del suo ministero terreno, erano tradizionalisti per eccellenza. Ma, qual era il problema con il loro genere di tradizione?
DI MATTHEW JOHNSTON
La parola tradizione rievoca ricordi di momenti festivi: gli spaghetti allo scoglio di Ferragosto o una passeggiata di Pasquetta. Però, essendo creature abitudinarie, il nostro amore per la tradizione non si limita alle consuetudini familiari bensì s’estende all’ambiente religioso. La questione “tradizione” viene a galla ogni qualvolta ci domandiamo perché facciamo ciò che facciamo per poi rispondere: “abbiamo sempre fatto così.”
I farisei, quegli avversari instancabili del nostro Signore al tempo del suo ministero terreno, erano tradizionalisti per eccellenza. Aderirono scrupolosamente al “la tradizione degli antichi” (Marco 7:3) per arrivare ad essere accettati davanti all’opera di Cristo. Intorpiditi dalla tradizione, anziché meravigliarsi davanti al fatto che “tutti quello che toccavano [Gesù] erano guariti,” (6:56), si preoccupavano della purezza delle mani dei suoi discepoli (7:3-5). Difatti, Gesù riservò le sue parole più severe per questi formalisti: “Guai a voi, scribi e farisei ipocriti...guide cieche...siete simili a sepolcri imbiancati, che appaiono belli di fuori, ma dentro sono pieni d’ossa di morti e d’ogni immondizia” (Matteo 23:13, 16, 27).
Ma, qual era il problema con il loro genere di tradizione?
TRADIZIONE E RIVELAZIONE
Gesù non lascia che si intreccino minimamente il comandamento di Dio e la tradizione degli uomini (Marco 7:8, 9). Una tradizione è dunque, perlomeno secondo l’ottica biblica, qualsiasi insegnamento non rivelato nella Scrittura, sia prassi sia dottrina. È vero che una tradizione possa presentarsi come un’applicazione legittima della Scrittura. Però, una tradizione continua ad essere utile solo fintantoché si radica nella Scrittura, riconosce l’unicità della sua autorità e rispecchia il suo insegnamento in modo equilibrato. L’insidia della tradizione si manifesta quando si annebbia la netta distinzione tra la tradizione degli uomini e la rivelazione di Dio. Perciò, Gesù riconosce una sola fonte autorevole: la Parola di Dio (vedi ad es. Matteo 4:4; 5:17; Giovanni 10:35).
La tradizione farisaica non si sviluppò da un giorno all’altro e nel primo secolo si accumularono centinaia di regole che componevano “la tradizione degli antichi” (Marco 7:3, 5). La tradizione era ideata come una siepe per salvaguardare la Legge di Mosè (rivelazione). In altre parole, recinsero la Parola di Dio con la tradizione per assicurarsi di non mai violarla. Flavio Giuseppe, il noto storico giudaico del primo secolo, spiegò che “I farisei trasmisero al popolo certe leggi ereditate dai padri le quali non sono scritte nella legge di Mose” (Antichità giudaiche, 13:297). Erano appunto non messe per iscritto e, pertanto, non facevano parte delle Scritture.
Questa tradizione, che girava oralmente nel primo secolo, venne raccolto nella Mishnah all’inizio del terzo secolo. La Mishnah contiene un intero trattato sulle mani (Yadiam). Basta un assaggio per accorgersi della pedanteria dei suoi precetti: Un lavacro rende pure le mani solo se c’è la quantità giusta (1.2), versata dal contenitore giusto (1.4). È vietato versare l’acqua dai lati di una barocca crepata (1.2). Un uomo non può unirsi le mani a forma di coppa per versare acqua sulle mani di un altro uomo (1.2). Le mani diventano impure ogni volta che toccano qualcosa di impuro, ad esempio viveri, vestiti, e vasi (3.1). Infatti, “Tutte le Sacre Scritture rendono le mani impure” (3.5).
Volente o nolente, le aggiunte possono snaturare la cosa a cui vengono aggiunte. Forse ci vuole un’illustrazione culinaria. Quando smette una pizza di essere una pizza margherita? Quanti ingredienti si devono aggiungere prima che non si possa più chiamarla margherita? La siepe farisaica invadeva ciò che doveva proteggere. Le applicazioni umane della Legge divina hanno assorbito la Legge divina, risucchiando l’intenzione dell’Autore originale, soffocando la grazia di Dio e lasciando soltanto un legalismo ipocrita.
Come possiamo intendere la gravità del pericolo della tradizione degli uomini?
IL DANNO DELLA TRADIZIONE DEGLI UOMINI
(1) La tradizione degli uomini maschera la condizione del cuore (Marco 7:6)
Rimproverando i farisei, Gesù riportò le parole del profeta Isaia: “Questo popolo mi onora con le labbra, ma il loro cuore è lontano da me” (Marco 7:6). La frase di Isaia si trova in un contesto di giudizio contro il guscio vuoto del formalismo in voga all’epoca in Israele. La tradizione degli uomini maschera la vera condizione del cuore perché aderendosi ad essa ci si convince che ci sia pace, mentre pace non c’è. L’esteriorità placa la conoscenza e fa si che ci si senta vicini a Dio, però non si è spinti a confidare in Dio perché non esige nulla se non ciò che si può fare con le proprie risorse. In altre parole, non ci si deve sbarazzare della propria autonomia: si può seguire Dio confidando in sé stessi. La tradizione umana non può attingere al cuore. È il cuore che conta perché esso è il vero io; il nucleo centrale della nostra esistenza. L’esortazione di Salomone tramette la stessa concezione: “Custodisci il tuo cuore più di ogni altra cosa, poiché da esso provengono le sorgenti della vita” (Proverbi 4:23). Benché lo si consideri spesso il luogo dell’emozione, nell’uso biblico la parola “cuore” abbraccia altresì la mente e la volontà: la mente in quanto si pensa nel cuore e si comprende con il cuore (ad es. Macro 2:6; Matteo 13:3), e la volontà in quanto si desidera nel cuore (ad es. Salmo 36:4; Matteo 6:21) e si crede con il cuore (ad es. Romani 10:9).
Per di più, è il cuore che importa a Dio. “L'uomo guarda all'apparenza, ma il SIGNORE guarda al cuore” (1 Sam. 16:7; cfr. Matteo 22:37). Ciò ci risulta problematico poiché “Il cuore è ingannevole più di ogni altra cosa e insanabilmente maligno” (Geremia 17:9). Infatti, nel paragrafo seguente (Marco 7:14-23) Gesù spiegherà che non l’esterno può rendere l’uomo impuro agli occhi di Dio perché il suo cuore è già impuro. E la sua impurità, vale a dire la sua peccaminosità, è dovuta alla condizione del suo cuore.
La gente si lascia felicemente intrappolare nella tradizione degli uomini perché, così facendo, non deve affrontare la realtà dell’immondizia che dimora nel suo cuore. Al meglio, la tradizione degli uomini provvede una specie di effetto placebo, ma le Scritture sole può trasformare il cuore (2 Timoteo 3:16-17; Ebrei 4:12).
(2) La tradizione degli uomini vanifica l’adorazione del Signore (Marco 7:7-8)
La tradizione degli uomini distorce il nostro culto. Gesù, citando ancora il profeta Isaia, dice: “invano mi rendono culto” (Marco 7:7). La loro adorazione era vacua e frivola. Poi, la frase successiva spiega la fonte della loro futilità: “insegnando dottrine che sono precetti di uomini” (Marco 7:7). I loro insegnamenti non erano che concezioni umane e opinioni mondane.
Il Signore non accoglie qualsiasi forma di adorazione. Solo Dio stesso può dirci come Dio vuole essere adorato. La tradizione degli umani rischia sempre di produrre presunzione anziché adorazione. La sincerità non può compensare l’insegnamento sbagliato e la dedizione serve a poco se si indirizza verso la meta sbagliata. L’adorazione che Dio riconosce è sempre una risposta sottomessa alla sua autorivelazione. Perciò, Il Signore annuncia: “Ecco su chi io poserò lo sguardo: su colui che è umile, che ha lo spirito afflitto e trema alla mia parola” (Isaia 66:2).
Le aggiunte dei Farisei erodevano l’unicità della rivelazione di Dio, mettendo in discussione la sua efficacia e la sua rilevanza nella forma in cui era stata originariamente elargita. Non potevano veramente onorare Dio perché in fondo pensavano di saper meglio di lui. Non si può innalzare qualcuno e mettere in dubbio la sua capacità di comunicare nello stesso momento: è una contraddizione!
(3) La tradizione degli uomini rimpiazza la Parola di Dio (Marco 7:9-13)
Pur essendo nata per motivi nobili, questa sorta di tradizione finisce per rimpiazzare la rivelazione di Dio. Tali tradizioni tendono a moltiplicarsi e l’esempio invocato da Gesù era soltanto un assaggio di una problematica molto più vasta (vedi v. 13: “Di cose simili ne fate molte”). Moltiplicandosi e man mano mettendo radici nella mente della gente, queste tradizioni offuscano il confine tra tradizione e rivelazione.
Le parole del nostro Salvatore sono sia chiare sia decisive: “Avendo tralasciato il comandamento di Dio, vi attenete alla tradizione degli uomini” (v. 8), “come sapete bene annullare il comandamento di Dio per osservare la vostra tradizione” (v. 9) e “annullando così la parola di Dio con la tradizione che voi vi siete tramandata” (v. 13). Insomma, c’è un nesso tra l’abbandonare la Parola divina e l’abbracciare la tradizione umana. Si deve lasciare il comandamento di Dio per poter fare spazio alla tradizione degli uomini.
Se ci si trova a fare la spesa al supermercato e i cestini sono finiti e si è senza moneta per il carrello, si prova a portare il più possibile in braccio. Ma si deve scegliere. I farisei i gli scribi scelsero la tradizione degli uomini e pertanto non c’era spazio per la Parola di Dio. Dovevano rinunciare all’una per avere l’altra.
In fine, Gesù fornisce una prova palese che la loro tradizione aggrediva la Parola invece di proteggerla (Marco 7:11-12). Egli cita il quinto comandamento (Esodo 20:12; Deuteronomio 5:16) e Esodo 21:17 dove la sua serietà viene ribadita. In questo caso la tradizione è degenerata trasformandosi in una scappatoia per fuggire la responsabilità davanti a Dio. Crearono un modo per “donare a Dio,” disubbidendo alla Parola di Dio. Quest’è la logica della tradizione degli uomini: Onoriamo Dio ignorando ciò che ha detto.
Il farisaismo si è estinto? Era un problema che affliggeva soltanto la chiesa antica?
3 RIFLESSIONI FINALI
La legittimità di una tradizione non può essere presunta. L’insegnamento del nostro Signore sulla tradizione non ci autorizza ad abbracciare ciecamente qualsiasi tradizione. Dobbiamo sempre analizzare ogni insegnamento alla luce della sua fedeltà alla Parola di Dio (Atti 17:11). La cosiddetta cattolicità di una tradizione importa solo se si radica nella Parola di Dio. Nel primo secolo quasi tutti i giudei caddero in preda del legalismo dei farisei (Marco 7:3) e i farisei erano portavoce dell’ufficiale entità religiosa. Non si può dare per scontato che una tradizione sia legittima soltanto perché vanta tanti aderenti. Solo la Parola di Dio (rivelazione) è sempre un’autorità legittima.
La soggettività è l’inevitabile prodotto della confusione tra tradizione e rivelazione. A volte i Padri della chiesa si contraddicono. Un papa può essere accusato di eresia da altri papi (Onorio I) e ci furano periodi in cui non si sapeva chi fosse il papa, perché ce ne erano diversi (vedi ad es. il concilio di Costanza). L’unica speranza di oggettività è la sola Scrittura perché non è mescolata e distorta con pensieri umani (2 Pietro 1:20-21). Chiunque può sostenere di essere ispirato dallo Spirito Santo. Però, si conosce lo Spirito della verità perché concorda sempre con i libri scritti dagli apostoli (1 Giovanni 4:6) che erano ispirati dallo Spirito Santo (Giovanni 14:26). Non si può dimostrare che una dottrina o una pratica è d’origine apostolica tranne nella misura in cui ciò può essere confermato dagli scritti apostolici, ossia il Nuovo Testamento.
L’unicità dell’autorità della Parola di Dio deve essere sempre protetta. I protestanti non sono contro i Padri della chiesa e la tradizione che trasmisero (ad es. nel suo capolavoro, Istituzione della religione cristiana, Calvino citò Agostino centinaia di volte). La tradizione di per sé è inevitabile. La vera domanda è: “come la trattiamo?” Ci si deve chiedere se le parole di Cristo lascino spazio per una tradizione che si ritiene autorevole quanto la Scrittura (vedi ad. es. Il Concilio di Trento, Sessione IV; Il Concilio Vaticano II, Dei Verbum, 2.10; Il catechismo della chiesa cattolica, 2.2.82).
Che Cristo ci elargisca la grazia di guardarci bene dal lievito della tradizione degli uomini (vedi Marco 8:15), custodendo la distinzione tra rivelazione divina e tradizione umana.